Era il nome d’arte di Sean Aloysius O’Feeney, regista cinematografico statunitense, di origine irlandese, nato a Cape Elizabeth, nel Maine, il 1° febbraio 1894. È stato uno dei più importanti registi del cinema classico hollywoodiano; meglio di ogni altro ha saputo raccontare il grande mito degli Stati Uniti, cogliendone gli aspetti affascinanti, ma anche contraddittori, soprattutto attraverso il genere nel quale spesso si identifica il cinema americano, ossia il western. Con i suoi indimenticabili protagonisti: i pionieri, la cavalleria, i cowboy, gli indiani.
Apparentemente legato alle tradizioni, al passato e agli ideali dell’epopea americana e sostanzialmente fedele alla sua identità complessa di irlandese immigrato, con le sue storie ha raccontato l’odissea avventurosa e difficile di uomini e donne capaci di affrontare ostacoli e difficoltà pur di seguire il proprio destino. A una prima lettura nei suoi film sembrano esaltati soltanto valori come l’individualismo, la famiglia, la libertà, la giustizia e l’orgoglio di appartenere alla nazione americana, ma a uno sguardo più attento vi affiorano spesso aspetti conflittuali e controversi che di quella stessa realtà rappresentata evidenziano problemi e drammatiche contraddizioni.

A partire dal 1917 cominciò a girare film a Hollywood e raggiunse il successo nel periodo del muto, realizzando numerose opere amate dal pubblico, tra cui Il cavallo d’acciaio (1924), sulla costruzione della ferrovia nel West. Già in questa fase sono presenti alcuni importanti elementi, poi costanti nella sua vasta produzione: la profondità con cui viene delineata la psicologia dei personaggi, lo stile rigoroso e la nitidezza della fotografia nel rendere sullo schermo gli sterminati spazi della frontiera, ma soprattutto la ricostruzione accurata delle ambientazioni, basata sulla documentazione, le fotografie e le opere dei pittori americani della seconda metà dell’Ottocento. Successivamente girò molti film apprezzati dal pubblico, prima e dopo l’avvento del sonoro, ispirati a romanzi o commedie di largo consumo, spesso a carattere melodrammatico. Ma il suo nome resta legato al genere western.

Nel 1939 riuscì a mettere in scena un western a basso costo, rifiutato dai più grandi produttori, Ombre rosse, forse il più celebre classico del cinema western, dove la diligenza con i sei passeggeri in viaggio nel territorio controllato dagli Apache in guerra, diviene l’indimenticabile simbolo della lotta contro i pericoli esterni, ma anche contro le proprie paure. Il film ottenne nel 1940 due Oscar per il miglior attore non protagonista e la migliore colonna sonora, il pubblico andò in delirio e Ford lanciò l’attore John Wayne, ancora poco conosciuto ma destinato a un grande futuro. Nello stesso anno il regista girò, uno dopo l’altro, due capolavori: Alba di gloria e La più grande avventura, il suo primo film a colori. Questi film segnarono l’inizio della collaborazione con Henry Fonda, altro grande interprete che sarebbe poi diventato un mito.

Ma Ford non esitò a realizzare anche un forte atto di accusa contro la società americana, girando Furore nel 1941, dal romanzo di John Steinbeck. Il film narra l’odissea di una famiglia di piccoli contadini, cacciati dalle loro terre dalla logica spietata e brutale del capitalismo, ed è ambientato nell’America devastata dalla Grande depressione.
Nel 1941 Ford ottenne un altro successo memorabile con un lavoro molto impegnativo e costoso, Com’era verde la mia valle, per il quale vinse nel 1942 numerosi Oscar, tra cui quello per il miglior film e per la miglior regia. La pellicola descrive la vita di una comunità di minatori del Galles, caratterizzata dalla miseria, dalla dignità, dagli scioperi, ma anche dalla grettezza e dai pregiudizi. Il film impressionò il pubblico americano, affascinato dalla rievocazione di un mondo arcaico, fiero e sicuro dei propri valori, proprio nel momento in cui ogni valore sembrava precipitare nell’abisso della Seconda guerra mondiale.

Dopo aver raccontato la storia del mitico sceriffo Wyatt Earp nel film Sfida infernale, del 1946, ultimo film con la Fox, Ford fondò una casa di produzione indipendente, la Argosy, che gli permise di esprimersi con maggiore libertà e di realizzare i suoi film più famosi, quasi tutti western: Il massacro di Fort Apache del 1946, I cavalieri del Nord-Ovest del 1949, Rio Bravo e La carovana dei mormoni del 1950. Universalmente stimato, non ebbe timore di mettere a repentaglio la sua reputazione e, durante il periodo del maccartismo, difese apertamente i colleghi Joseph L. Mankiewicz e Frank Capra, accusati di simpatie per il comunismo.

Nel 1952 il suo ultimo film con la Argosy, Un uomo tranquillo, gli valse un nuovo Oscar per la regia e un successo commerciale notevolissimo, che venne però rovinato da una lite giudiziaria. Inasprito dalla controversia, gravemente colpito da lutti e malattie, il regista entrò in una fase depressiva che sfociò in un intensificarsi dei problemi connessi all’alcolismo. Tuttavia, il risultato di questo periodo di crisi e di conflitti fu uno dei suoi western più riusciti, Sentieri selvaggi, del 1956, magistralmente interpretato da John Wayne, in cui Ford descrive con notevole finezza psicologica un eroe che gli somiglia: un uomo di mezza età che ha subito terribili traumi ed è ossessionato dal desiderio di rivincita, spinto verso comportamenti aspri e violenti.

Successivamente abbandonò le sicurezze del cinema hollywoodiano e si gettò nell’avventura di un’ultima stagione piena di malinconia, portando sullo schermo personaggi ambigui e sconfitti, elevando al ruolo di eroi individui da sempre ai margini dei film americani, come i neri e gli indiani o prestando una diversa attenzione alle figure femminili. Fanno parte dei lavori di quest’ultimo periodo Soldati a cavallo, del 1959, Cavalcarono insieme, del 1961, e soprattutto il western crepuscolare L’uomo che uccise Liberty Valance, una straordinaria riflessione sul mito del West e sul rapporto tra storia e leggenda, e tra verità e finzione.

E con la stessa coerenza morale che lo accompagnò sino alla morte, il 31 agosto del 1973, non esitò a incentrare il suo ultimo western, Il grande sentiero del 1964, sulla fuga dei Cheyenne verso il Nord-Ovest. Fu in qualche modo un risarcimento nei confronti di coloro che in tanti suoi film erano stati rappresentati come un micidiale pericolo, e che ora venivano finalmente presentati nella loro triste realtà di vittime.

“Se sei in dubbio sul da farsi,
gira un film western.”
FONTE: Enciclopedia del cinema, Treccani
cavolo, non lo conoscevo
di mio non amo molto i western, ma come al solito mi hai messo una forte curiosità
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Bene, la curiosità è sempre utile.
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Ombre Rosse è stato un film estremamente importante che ancora oggi si dimostra molto moderno a livello registico.
Comunque è stato un regista veramente importante e sono contento che verso la fine abbia dato un pò di giustizia agli indiani.
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C’è voluto un bel po’, ma alla fine ci siamo arrivati.
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Epico, omerico, maestro del cinema. Soldati a cavallo è uno dei dieci film che mi porterei in una ipotetica isola deserta
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Ombre rosse e non solo , la Monument Valley ha il suo John Ford point
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Visti tanti. Ricordo con piacere Un uomo tranquillo.
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Buonanotte da qui
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Buonanotte, domani giornata lunga.
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Buon giorno 1 ops
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Notte da qui
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Buonanotte anche a te.
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