Richard Brooks, il potere della parola

Abile regista ma soprattutto fantastico sceneggiatore, ha firmato molti film immortali che sono entrati a buon diritto nella storia del cinema. Virtuoso della parola, nato come scrittore, si affermò nel corso della sua carriera come autore completo e riuscì a realizzare il connubio perfetto tra cinema e letteratura. Le profonde convinzioni democratiche, la costante attenzione rivolta alle oscure trame politiche e all’implicita responsabilità dei media, caratterizzano tutte le sue opere, insieme a un ironico pessimismo.

Il suo vero nome era Ruben Sax, ed era nato a Philadelphia il 18 maggio 1912, da immigrati russi di origine ebraica. Dopo essersi laureato alla Temple University, nel 1934 iniziò a lavorare come cronista sportivo, per diventare nel 1936 commentatore e programmista radiofonico alla NBC di New York. Si trasferì quindi nel 1941 a Hollywood dove, prima di essere arruolato nel corpo dei marines, iniziò la sua attività di dialoghista e sceneggiatore. Successivamente scrisse il suo primo romanzo, The brick foxhole (1945), da cui fu tratto due anni dopo Odio implacabile, di Edward Dmytryk, uno dei primi importanti film di Hollywood a parlare di antisemitismo, e collaborò alle sceneggiature di alcuni grandi capolavori noir dell’immediato dopoguerra come I gangsters (1946), di Siodmak, Forza bruta (1947) di Jules Dassin e L’isola di corallo (1948) di John Huston.

Ancora di rilievo nella sua carriera furono altri due romanzi, The boiling point (1948) e in particolare The producer (1951), in cui è facile riconoscere la controversa figura del produttore hollywoodiano Mark Hellinger. La sua avventura come regista inizia con il film La rivolta (1950). Si racconta che Cary Grant, dopo aver letto la sceneggiatura scritta proprio da Brooks, avesse manifestato la volontà di interpretare il ruolo del protagonista, che per lui era insolito. Il film narra di un neurochirurgo dibattuto da una crisi di coscienza perché costretto a salvare la vita, col suo intervento, a un sanguinario dittatore del Sud America. Brooks gli disse che gli sarebbe piaciuto dirigerlo, e Grant rispose: “Se l’hai scritto, non vedo perché non puoi dirigerlo”.

Così iniziò il suo percorso dietro la macchina da presa, ma fu solo nel 1952, con L’ultima minaccia, che Brooks si impose come cineasta di talento, degno delle sue già note qualità di sceneggiatore. Dopo quella superba apologia del giornalismo incorruttibile e controcorrente, seguirono altri film tutti caratterizzati da tematiche sociali e politiche. Il seme della violenza (1955), sul difficile rapporto tra un insegnante e i suoi alunni violenti, sorprese tutti per la vivace rappresentazione della violenza e della delinquenza del mondo giovanile americano del tempo, facendo conoscere al pubblico e alla critica il talento del giovane Sidney Poitier e procurando a Brooks la prima nomination all’Oscar per la sceneggiatura nel 1956.

L’ultima caccia (1956), intelligente western revisionista e dalla parte degli indiani, fu un manifesto contro il capitalismo, intriso di malinconia; nello stesso anno firma una commedia amara, Pranzo di nozze, che non fu però un gran successo di pubblico. Al contrario, La gatta sul tetto che scotta (1958), tratto da un dramma di Tennessee Williams che era stato un grande successo a Broadway, si rivelò un successo di critica e di botteghino tale da dare l’indipendenza a Brooks e alla sua visione del cinema. Per questo film, che contribuì anche a rilanciare Elizabeth Taylor e a fare una star di Paul Newman, Brooks ricevette la seconda nomination all’Oscar per la migliore sceneggiatura e migliore regia nel 1959.

Seguì ll figlio di Giuda (1961), potente ritratto di un eccentrico predicatore ciarlatano, che rappresentò un’accusa dura e impietosa contro il bigottismo, l’ipocrisia religiosa, il fanatismo e l’isteria di massa, tipici di un certo ceto americano: ricevette cinque nomination nel 1961 e vinsero l’Oscar Lancaster come migliore attore protagonista e Brooks per la sceneggiatura originale. Nel 1962 diresse La dolce ala della giovinezza, tratto da Tennessee Williams, film molto popolare e ben accolto dalla critica, ma che non fu un successo travolgente; nel 1966 firmò I professionisti, romantica e disillusa elegia della rivoluzione sostenuta da individui senza scrupoli, e uno dei western più originali mai girati, per cui Brooks ricevette un’altra nomination per la miglior regia.

Nel 1967 fu scelto da Truman Capote per l’adattamento cinematografico del suo romanzo A sangue freddo, analisi impietosa dei meccanismi crudeli della violenza individuale, che conducono alla brutale condanna a morte inflitta dal sistema garantista. Questo film rappresentò il culmine della carriera di Brooks e gli valse la quinta nomination all’Oscar per la migliore sceneggiatura e la migliore regia. Ma Brooks amò trarre ispirazione anche dai grandi scrittori dell’Ottocento. Dal russo Dostoevskij aveva tratto nel 1958 Karamazov, con Lee J. Cobb, Claire Bloom, Yul Brynner, Richard Basehart, e Maria Schell; mentre dall’inglese Conrad ricavò Lord Jim (1965), che fu un insuccesso nonostante tutti gli sforzi anche economici del regista per dar vita a un film epico, coinvolgendo un cast d’eccezione tra cui Peter O’Toole, Eli Wallach, Jack Hawkins e James Mason. Il film è ricordato però come la miglior interpretazione di Peter O’Toole.

Anche negli anni ‘70 e ‘80 Brooks non cessò mai di sorprendere, come stanno a dimostrare l’amorale parabola sulla disonesta avidità umana de Il genio della rapina (1971), con Warren Beatty, l’originale western animalista Stringi i denti e vai! (1975), con Gene Hackman, il ritratto di una sventurata solitudine femminile disegnato con In cerca di Mr. Goodbar (1977) e il profetico ma trascurato thriller fantapolitico Obiettivo mortale (1982), dove la dietrologia della politica statunitense in Medio Oriente, capitalizzata dai network, scatena una serie di attentati terroristici che hanno come obiettivo il World Trade Center e l’intera città di New York. L’ultimo suo film, di cui ha scritto anche la sceneggiatura, fu La febbre del gioco (1985), con Giancarlo Giannini, Catherine Hicks e Ryan O’Neal, che ruota intorno alla dipendenza dal gioco d’azzardo di un affermato cronista che, a Las Vegas per un’inchiesta, ripiomba nel vizio sino alla disfatta totale. Purtroppo il film non fu un gran successo, tanto che fu candidato ai Razzie Award.

Brooks si sposò quattro volte: una prima volta, forse molto giovane, quando si trovava a New York, poi dal 1941 al 1944 fu sposato con Jean Kelly, un’attrice degli Universal Studios, mentre nel 1946 sposò Harriette Levin che non apparteneva al mondo del cinema, da cui divorziò nel 1957. Dal 1960 al 1980 fu sposato con l’attrice Jean Simmons, che aveva divorziato da Stewart Granger, e che recitò con lui in diversi film.
Confortato dalla famiglia e dall’amico di lunga data Gene Kelly, Brooks morì per insufficienza cardiaca l’11 marzo del 1992, a 79 anni.

«Mi piacerebbe che si dicesse di me che ho raccontato delle belle storie e che ero capace nel mio lavoro. In fondo la macchina da presa non è altro che la penna del regista»

FONTI: Enciclopedia del cinema, Treccani – sivia-iannello.blogspot.com


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Autore: Raffa

Appassionata di cinema e di tutte le cose belle della vita. Scrivo recensioni senza prendermi troppo sul serio, ma soprattutto cerco di trasmettere emozioni.

8 pensieri riguardo “Richard Brooks, il potere della parola”

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