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Marlon Brando, un mito americano

Nasce a Omaha (Nebraska) il 3 aprile 1924. Divo tra i più sensibili e ricchi di talento del cinema hollywoodiano, interprete carismatico, coraggioso e imprevedibile nella scelta dei ruoli, ha prestato il suo fascino a personaggi complessi, ambigui e combattuti. E’ l’attore che ha incantato due generazioni di spettatori, ma è forse anche quello più complicato da capire sul profilo professionale e privato.

Figlio di un commesso viaggiatore e di un’attrice, fin da bambino Marlon si dimostrò un ribelle, caratteristica che conservò fino alla fine; poiché non andava d’accordo con il padre, i caratteri contrapposti risultavano nocivi per entrambi e così decise di abbandonare i regolari studi che lo avrebbero portato alla laurea, per intraprendere la carriera militare. Questa scelta nacque dall’idea che l’irrecuperabile carattere sarebbe stato educato dalla disciplina e dal rigore militare. E invece il giovane mal sopportava le rigide regole e la gerarchia all’interno dell’Accademia, e venne espulso più volte.

Trasferitosi a New York nel 1943, per caso iniziò a misurarsi con la tecnica teatrale ottenendo dei discreti successi. La cosa che più gli piaceva era confrontarsi con il pubblico e il mettersi in gioco con sé stesso. Iniziò a frequentare l’accademia di recitazione, l’Actor’s Studio, che gli avrebbe fatto comprendere il famoso “Metodo”, allora molto in voga. Grazie a quanto apprese, fu l’unico a interpretare alla perfezione il personaggio di Stanley in Un tram che si chiama desiderio. Centinaia di repliche ogni anno, folle che lo andavano a vedere e applaudire, facendolo diventare un’icona di quegli anni e permettendogli di crescere come persona a livello anche psicologico.

Quando Elia Kazan portò il dramma sullo schermo, fu naturale dare a Brando il ruolo di Stanley e lui traspose il metodo nel cinema hollywoodiano: dirompente presenza fisica in jeans e canottiera, seppe infondere un’insinuante carica erotica al brutale e volgare Kowalski, personaggio da lui detestato, ma che gli valse la prima nomination all’Oscar della sua carriera. Successivamente interpretò la parte del rivoluzionario Emiliano Zapata in Viva Zapata!, ancora del suo mentore Kazan, che gli valse l’affermazione a Cannes. A quello di Zapata, seguì il potente ritratto di Marco Antonio, in Giulio Cesare di Joseph L. Mankiewicz.

L’anno successivo, grazie al discusso melodramma Fronte del porto, nel ruolo del portuale e pugile fallito Terry Malloy, impose all’industria del cinema la sua impareggiabile bellezza, ma anche la sua tecnica raffinata e virtuosistica, il suo stile brusco e inconfondibile, imitato per anni dai colleghi. Divenne definitivamente un’icona del divismo cinematografico, in sella a una Triumph Thunderbird, nella parte del teppista Johnny, capo di una banda di motociclisti in giubbotto di pelle, con l’epocale Il selvaggio, del 1953, capostipite del filone sul ribellismo giovanile, accusato all’epoca di istigazione alla violenza e vietato in Inghilterra per ben quattordici anni.

A questo punto, all’apice del successo critico e commerciale, Brando, quasi a voler mettere in discussione il suo prestigio, si invischiò volontariamente in operazioni tutt’altro che riuscite: lo storico Désirée del 1954, in cui interpreta uno svogliato e improbabile Napoleone, il musical Bulli e pupe di Mankiewicz del 1955, in cui canta, nonostante la voce non proprio tenorile, e il farsesco La casa da tè alla luna d’agosto, del 1956, nel quale recita in kimono e truccato da giapponese.

Dopo Sayonara del 1957, sposa l’attrice gallese Anna Kashfi, dalla quale si separa dopo pochi mesi. Tornato a offrire un’interpretazione memorabile con il ruolo del tormentato ufficiale nazista nel melodramma bellico I giovani leoni, del 1958, prestò successivamente il suo fascino tenebroso al vagabondo di Pelle di serpente, di Sidney Lumet, accanto ad Anna Magnani.

Negli anni Sessanta le interpretazioni iniziarono a declinare, i soggetti erano scarsi; fu protagonista di Missione in Oriente, nel 1963, poi nel 1966 interpretò La caccia e successivamente fu diretto da Charlie Chaplin con Sophia Loren ne La contessa di Hong Kong, nel 1967, e poi da John Huston in Riflessi in un occhio d’oro, nello stesso anno. Fu l’inizio degli anni Settanta a ridargli dignità, grazie a Francis Ford Coppola che gli affidò la parte del boss Don Vito Corleone ne Il Padrino, nel 1972. Qui fu perfetto, aiutato da una buona sceneggiatura: l’abile uso del trucco, che lo invecchiò ulteriormente, e la voce rauca ne fecero un simbolo del cinema.

In seguito, ogni film diventò un evento mediatico, ma non riuscì più a rimettersi in gioco come ne Il Padrino. Sotto la direzione di Bernardo Bertolucci affrontò Ultimo tango a Parigi, ma valse più lo scandalo della censura che la sua interpretazione. Forse dopo quest’opera pensò di essere finito come attore, affrontò psicologi, analisti e il suo corpo iniziò a ingrassarsi, perché si riempiva di cibo e non badava più alla linea.

Ancora una volta nel 1979, il regista Coppola lo chiamò per il film Apocalypse Now nella parte del colonnello Kurtz, e il risultato fu notevole. Si rilancia nuovamente come attore, interpreta questo soggetto a meraviglia, e tutta una nuova generazione di pubblico lo conosce e lo rivaluta. Ma gli anni continuarono a lasciare il segno sul suo fisico, di cui non si curava più, così gli anni Ottanta e Novanta lo videro in film di poco conto rispetto a quelli che aveva interpretato in passato; ogni piccola o breve apparizione sullo schermo, però, era pagata con assegni elevatissimi; ogni regista lo voleva per il suo film, ogni attore lo desiderava accanto.

Così il mito di Marlon Brando prosegue ancora oggi, molti attori fanno a gara per poterlo imitare, tentando di rassomigliargli, cercando di interpretarlo, ma nessuno po’ più farlo o riuscirci perché il suo stile provocatorio, drammatico e ironico di recitare è diventato un simbolo della cultura americana, e quei personaggi da lui interpretati sono oggi il manifesto di un cinema che ormai non c’è più.

Fra i numerosi riconoscimenti ottenuti durante la sua carriera, vanno ricordati i due Oscar che gli sono stati conferiti rispettivamente nel 1955 per Fronte del porto, e nel 1973 per Il padrino, oltre al premio per la migliore interpretazione ottenuto al Festival di Cannes con Viva Zapata! nel 1953.

Muore per una crisi respiratoria nel luglio del 2004, due mesi dopo il suo 80º compleanno.

Vita sentimentale convulsa e burrascosa, con tre matrimoni e altrettanti divorzi, sempre con attrici: il primo con Anna Kashfi, da cui ebbe un figlio, Christian, morto di polmonite nel 2008, il secondo con Movita Castenada, da cui ebbe due figli, Miko e Rebecca, e l’ultimo con Tarita Teriipia, da cui nacquero tre figli, Simon Teihotu, Stefano e Cheyenne, morta suicida nel 1995 a 25 anni. Inoltre, ha avuto 3 figli nati da una relazione con la sua cameriera, Maria Christina Ruiz. Infine, ha adottato altri 3 figli: Petra, Maimiti e Raiatua. Il primogenito, Christian, uccise il fidanzato della sorellastra Cheyenne, perché questi la maltrattava. Evitò una condanna a 20 anni di galera per l’intervento del padre, che elargì una somma incredibile, mai del tutto accertata, ai familiari della vittima.

«La maggior parte degli attori di Hollywood che arrivano ad avere successo, sono un fallimento come esseri umani»

Per chi cerca qualche curiosità: Marlon Brando – Tra mito e realtà

FONTI: Enciclopedia del cinema, Treccani – ciakhollywood – cinekolossal

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Autore: Raffa

Appassionata di cinema e di tutte le cose belle della vita. Scrivo recensioni senza prendermi troppo sul serio, ma soprattutto cerco di trasmettere emozioni.

29 pensieri riguardo “Marlon Brando, un mito americano”

    1. Forse è il contrario: forse sono persone con un ego smisurato che trovano sfogo e sublimazione nell’arte, soprattutto nella recitazione, che ti dà spesso la possibilità di interpretare ruoli catartici. E’ solo una mia idea, bisognerebbe chiedere a uno psicologo 🙂

      Piace a 1 persona

      1. Si, la corrispondenza è molto biunivoca. Forse andare nella direzione che tu dici è la stragrande maggioranza dei casi: sublimare nell’arte. Ho avuto esperienze anche al contrario. Diventando artisti, certi lati egopatici si amplificavano. Si uno psicologo potrebbe aiutarci a capire meglio. Grazie Raffa.

        Piace a 1 persona

        1. Vero, però vale il discorso fatto per i calciatori: certi compensi spropositati sono anche colpa di chi accetta di pagarli. Uno può chiedere qualunque cifra, ma se cominciano a negartela, poi devi scendere con le pretese se vuoi lavorare.

          Piace a 1 persona

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