Humphrey Bogart, l’inimitabile

1899 – 1957

Il volto scavato, interessante anche se decisamente non bello, segnato da un’espressione amara e a tratti illuminato da un sorriso obliquo, la voce ruvida e il fisico asciutto, ma esile e di piccola statura, ne fecero un mito senza tempo, e certamente una delle più suggestive figure della storia del cinema, che seppe contrapporsi ai modelli di bellezza maschile della sua epoca.

Il suo nome completo era Humphrey DeForest Bogart. Nasce a New York il 23 gennaio 1899, anche se più tardi la Warner Bros volle creare intorno all’attore un alone leggendario, spostando la sua data di nascita al 25 dicembre, data che compare anche sulla sua lapide. Proveniente da famiglia facoltosa, di origine olandese da parte di padre, non mostrò un grande interesse per lo studio e preferì arruolarsi volontario in Marina, durante la Prima Guerra Mondiale, piuttosto che terminare l’università. Dopo essersi congedato, si dedicò a professioni diverse per poi infine debuttare a teatro nel 1922.

L’esordio sul grande schermo avvenne invece alla fine degli anni ‘20 con alcuni film di poco conto della Fox. Come pochi altri, nella sua carriera ha fatto gavetta nel vero senso del termine. Prima di giungere al successo, nel 1941, ha impersonato ruoli minori in ben 45 film, molti dei quali girati a ritmo serrato con una media di sei l’anno, spesso calato in personaggi improbabili e in ruoli senza spessore. Non gli mancarono però le buone occasioni per dimostrare le proprie capacità drammatiche, come ne La foresta pietrificata, del 1936, o I ruggenti anni Venti del 1939.

In questo periodo Bogart fu sempre molto professionale, pur rendendosi conto che i produttori davano la priorità ad attori come James Cagney, Paul Muni o Edward G. Robinson, e non intendevano per il momento fare di lui un divo, riservandogli le parti scartate da questi e da altri attori più famosi. L’attore da un lato lottava per non restare imprigionato nella figura del killer brutale o del gangster, in cui veniva sempre relegato, cercando l’occasione di misurarsi con personaggi diversi, dall’altro continuava a perfezionare la sua maschera cinica di duro, sempre più arricchita da tratti di amarezza spesso venati di ironia.

La grande occasione arriva nel 1941 con due film diversi, Una pallottola per Roy, diretto da Ralph Walsh, e soprattutto Il mistero del falco, di John Huston. Nel primo seppe interpretare con sofferta umanità la figura di Roy Earle, un piccolo criminale uscito dal carcere, senza futuro di fronte a un mondo in vertiginosa trasformazione. Nel secondo, vestendo i panni di Sam Spade, riuscì a disegnare con maestria la moderna figura del detective privato, individualista, solitario e cinico.

Con questo personaggio risultò definitivamente perfezionato il mito Bogart: il duro con il cappello lievemente inclinato, la sigaretta tra le labbra, avvolto nel trench, ironico e spavaldo con le donne, con un preciso codice d’onore per il quale può sacrificare anche l’amore, ma mai l’indipendenza e la libertà. Ha inaugurato, così il ciclo dei film noir anni ‘40, diventando per questo tipo di film una vera leggenda del cinema.

Interpreta poi il ruolo più famoso della sua carriera, l’indimenticabile Rick di Casablanca (1942) diretto da Curtiz, ruolo che gli valse la prima nomination all’Oscar e lo consacrò come cavalleresco eroe romantico, che rinuncia all’amore della splendida Ingrid Bergman, in nome di superiori valori morali. Lo stesso accade in Acque del sud, diretto nel 1944 da Howard Hawks, in cui è il rude proprietario di un’imbarcazione, che affitta a ricchi turisti annoiati, e decide di portare in salvo un capo della Resistenza francese. Durante le riprese di questa pellicola incontra Lauren Bacall, allora giovanissima esordiente: i due si innamorano e lei diventa di lì a poco la sua quarta e ultima moglie. Il vero amore della sua vita.

Bogart e Bacall recitarono insieme in altri tre film: La fuga (1947), L’isola di corallo (1948), ma soprattutto Il grande sonno (1946) in cui Bogart, questa volta diretto da Hawks, era stato di nuovo un detective, il raffinato Philip Marlowe di Chandler. Ma fu di nuovo Huston a regalargli un ruolo che l’attore amò profondamente, quello del protagonista de Il tesoro della Sierra Madre (1948), che con due compari si lancia alla ricerca dell’oro, nella speranza di riscattare un’intera vita di miseria.

Bogart fu attratto da questa sfida interpretativa come accadrà più tardi con il tormentato capitano Queeg de L’ammutinamento del Caine (1954) di Edward Dmytryk. In questa terza e ultima parte della sua carriera il fascino della contraddizione, sul quale aveva costruito la psicologia dei suoi personaggi più riusciti, continuò a guidare l’attore nella scelta dei ruoli, tutti caratterizzati da uno spiccato individualismo. Come il direttore di giornale che ne L’ultima minaccia lotta strenuamente contro la corruzione, regalandoci una battuta che passerà alla storia: “È la stampa, bellezza, e tu non puoi farci niente”. O come il regista cinico che aiuta Ava Gardner a diventare una stella ne La contessa scalza (1954)

Ma Bogart seppe anche smitizzare certi suoi tipici tratti, divertendosi a estremizzarli con ironia come accadde con La regina d’Africa (1951) dove, diretto per la quarta volta da Huston e contrapposto a una spumeggiante Katharine Hepburn in gustose schermaglie, conquistò l’Oscar, interpretando un incallito ubriacone che si riscatta in un eroico finale. O ancora nella commedia Non siamo angeli (1955) di Michael Curtiz, in cui fa una divertita parodia dei suoi ruoli da duro. Nel 1954 era stato chiamato a sostituire Cary Grant nella romantica commedia Sabrina, in cui forma una sorprendente coppia con Audrey Hepburn, a dispetto della differenza di età tra loro.

L’anno dopo interpreta il suo ultimo gangster, invecchiato, pieno di rabbia, che tiene in ostaggio un onesto capofamiglia in Ore disperate, di William Wyler. Ormai segnato dalla malattia, fu un malinconico ex giornalista che sa riscattarsi dal giro di corruzione in cui si è lasciato intrappolare, denunciando coraggiosamente le storture del mondo della boxe, nel suo ultimo film, Il colosso d’argilla (1956), diretto da Mark Robson.

Di carattere pacato, grande giocatore di scacchi, nella vita era l’esatto contrario dei duri personaggi interpretati in numerosi film. Qui sopra gioca a scacchi con Joan Bennett durante una pausa di lavorazione sul set.
Politicamente democratico e difensore degli ideali di libertà, durante il periodo buio del maccartismo si fece promotore di una marcia di protesta contro il divieto al lavoro che aveva colpito numerosi attori, registi e sceneggiatori di Hollywood.

Non c’è un solo film da protagonista in cui non compaia con la sigaretta in bocca. Purtroppo il vizio del fumo gli causa un tumore alla gola che lo porta alla morte prematura, a soli 57 anni, il 14 gennaio 1957.

Bogart costituisce uno di quei rari casi in cui la leggenda sembra in qualche modo crescere e arricchirsi dopo la morte. Godard e Truffaut lo ricordarono rispettivamente in Fino all’ultimo respiro e Tirate sul pianista (entrambi del 1960), mentre negli anni ‘60 e ‘70 il mito di Bogart è stato entusiasticamente rilanciato da omaggi, rivisitazioni, persino parodie, come quella di Woody Allen in Provaci ancora Sam, a dimostrazione di una vitalità e di una attualità che non accennano a diminuire.

«Non sono di bell’aspetto. Forse lo ero da giovane, ma ora non più. Quello che ho è carattere, e ci sono volute un sacco di notti brave e di bevute per disegnarlo sulla mia faccia»

FONTI: Enciclopedia del cinema, Treccani – cinekolossal


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Autore: Raffa

Appassionata di cinema e di tutte le cose belle della vita. Scrivo recensioni senza prendermi troppo sul serio, ma soprattutto cerco di trasmettere emozioni.

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