John Huston, maestro della cinepresa

La critica, specialmente quella italiana che di solito guarda molto ai contenuti e alle tematiche dei registi, cercando di etichettarli in qualche modo, si è molto scervellata per trovare il tema ricorrente nella vastissima filmografia di John Huston, che comprende film diversissimi. Cosa li accomuna, dunque? La risposta è lo sforzo, individuale o di gruppo, per raggiungere una determinata mèta, sforzo che è però sempre destinato al fallimento.

Che si tratti di azioni oneste o disoneste, che si svolgano sotto il segno del coraggio o dell’avventura, all’interno di vicende belliche o poliziesche, questi tentativi incoscienti o coraggiosi, leali o sleali che siano, finiscono sempre in un’amara riflessione sulla loro inutilità, per scoprire che la vita è piena di illusioni, delusioni e grottesche dimostrazioni di vanità.

Può anche darsi che Huston pensasse di portare avanti un suo discorso, ma l’impressione che si ricava guardando i suoi lavori nel complesso, è che gli premesse soprattutto raccontare delle storie, al di là di ogni implicazione morale e intellettuale. Huston non voleva dimostrare niente. Era esattamente quello che sembrava. E soprattutto era contraddittorio, come i suoi film.

Nella sua filmografia si trovano pellicole stupende, altre più discutibili ma anche film che per qualche motivo non sono piaciuti, non hanno incontrato il favore del pubblico e della critica. Se si guardano i suoi lavori solo dal punto di vista estetico, si potrebbe pensare a un autore discontinuo; in realtà Huston era una forza della natura, un amante del cinema fine a se stesso, capace anche di fare cose brutte o non proprio belle, come uno di quegli artisti presi dalla frenesia dell’espressione artistica, che non si preoccupano del risultato.

Huston amava il cinema in maniera viscerale, violenta e totale, e realizzava una perfetta fusione di spontaneità e calcolo, purezza e cinismo, talento e scaltrezza tecnica, genialità e ironia, anche nei film meno riusciti. A differenza di Hawks, che non ha mai sbagliato un film e ha realizzato stupendamente bene ogni genere affrontato, o di Hitchcock e Kubrick, precisi e pignoli nei dettagli, in maniera maniacale, sempre alla ricerca della perfezione, Huston ha sbagliato molto forse, ma ha anche inventato molto, ha sempre dato un taglio nuovo e originale, spesso ironico e beffardo, ai vari generi.

Così, anche nei film meno validi, si può sempre trovare una forza espressiva potente che realizza un ribaltamento degli schemi e un rinnovamento dei generi, e alla fine diventa il tocco personale di questo grande regista.

Dopo un breve periodo in cui si dedicò al teatro e al giornalismo, cominciò a svolgere l’attività di sceneggiatore. Esordì nella regia nel 1941 con Il mistero del falco, di cui scrisse anche la sceneggiatura, suscitando subito grande interesse. A questo successo, seguì un decennio particolarmente fortunato, in cui Huston si affermò come uno dei grandi registi americani della nuova generazione. Nel periodo bellico realizzò documentari di notevole intensità drammatica, mentre nel dopoguerra diresse una serie di film che consolidarono la sua fama.

Il tesoro della Sierra Madre, film con cui nel 1949 vinse l’Oscar per la migliore regia e per la sceneggiatura, narra le imprese di tre cercatori d’oro e gli effetti devastanti che l’arricchimento ha su uno di loro; ma il capolavoro di Huston in questo periodo della sua carriera resta Giungla d’asfalto dell’anno successivo, prototipo di tutto il filone cinematografico incentrato sull’organizzazione di una rapina. Con l’inizio degli anni Cinquanta cominciò invece la fase più controversa della carriera di Huston, criticato per atteggiamenti giudicati elusivi davanti al maccartismo. Dopo aver partecipato a iniziative anti maccartiste, il regista preferì infatti lasciare gli Stati Uniti della caccia alle streghe per trasferirsi in Europa, lavorando a produzioni culturalmente ambiziose, sebbene talvolta qualitativamente discontinue.

Tra le opere realizzate negli anni Cinquanta vanno ricordate Moulin Rouge del 1952, sulla vita di Toulouse-Lautrec, e Moby Dick del 1956, in cui Huston rilesse il capolavoro di Melville adattandolo ad esigenze spettacolari e divistiche. Negli anni Sessanta realizzò il western Gli inesorabili, interessante più per la crudeltà di alcuni dettagli che per il tema razziale, due pellicole ambiziose come Freud, passioni segrete del 1962 e La notte dell’iguana tratto da T. Williams, un singolare divertissement come I cinque volti dell’assassino del 1963 e la spettacolare operazione de La Bibbia del 1966.

Due sono tuttavia i titoli più significativi del decennio, entrambi caratterizzati da una personale ricerca narrativa e imperniati su un gruppo di personaggi: Gli spostati del 1961, sceneggiato da Arthur Miller, che è una malinconica riflessione sullo smarrimento di un’America al crepuscolo, e Riflessi in un occhio d’oro, ambientato in una base militare e costruito su un raffinato gioco di sguardi tra personaggi tormentati. Gli anni successivi confermarono la ritrovata vena del regista, prima con il western L’uomo dai sette capestri, del 1972 dove il suo humour si mescola alle provocazioni dello sceneggiatore John Milius, poi con L’uomo che volle farsi re, del 1975 tratto da Kipling: in entrambi i casi, Huston tornò ad affrontare il tema dell’avventura con una rinnovata libertà inventiva e narrativa.

Nel 1981 dirige Fuga per la vittoria, non troppo amato dalla critica e considerato più un’operazione commerciale, che infatti ha un buon successo di pubblico. Negli ultimi anni, con L’onore dei Prizzi del 1985 offrì un pungente ritratto della mafia italoamericana in chiave grottesca, e con The dead ‒ Gente di Dublino, tratto da Joyce due anni dopo, realizzò il più sobrio e misurato tra i suoi adattamenti letterari. In ultimo va ricordato che Huston non fu solo regista e sceneggiatore, ma anche eccellente attore in decine di film, tra cui Il cardinale di Otto Preminger, che gli valse una candidatura all’Oscar e il Golden Globe come migliore attore non protagonista, La Bibbia, dove interpreta Noè, e soprattutto Chinatown di Roman Polanski, dove è il vecchio Noah Cross, patriarca incestuoso e dispotico.

«Hollywood è sempre stata una gabbia, una gabbia che ci permette di inseguire i nostri sogni»

FONTI: Enciclopedia del cinema, Rusconi editore – Enciclopedia del cinema, Treccani

Autore: Raffa

Appassionata di cinema e di tutte le cose belle della vita. Scrivo recensioni senza prendermi troppo sul serio, ma soprattutto cerco di trasmettere emozioni.

23 pensieri riguardo “John Huston, maestro della cinepresa”

  1. Dagli esperti di cinema non viene considerato uno dei suoi migliori film , ma per un appassionato di sport come me “fuga per la vittoria” è un cult ! Conosco le battute a memoria … (non so se è un vanto) 😌

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    1. Sai che hai ragione? Tra l’altro è un film che amo molto, eppure non era citato nell’enciclopedia su cui mi sono basata… Forse perché non è considerato un film particolarmente impegnato. Mi rifarò prossimamente facendone la recensione!

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  2. legegvo questo tuo post ieri sera tardi e devo dire che hai centrato ancora una volta il “tema” è proprio come dici! a me era piaciuto particolarmente “gli spostati” che per il tempo era una modo diverso di narrare! ciaoooo e nuon venerdì

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