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Robert Altman, senza tabù

Due sono le tematiche essenziali di Robert Altman: la perenne raffigurazione del gioco come fulcro dell’esistenza, e la dissacrazione del sogno americano. Nei suoi film, che sono giganteschi affreschi della media borghesia americana, popolata da volti spesso grotteschi, esplode tutta la follia di mode, convenzioni, tabù e ipocrisie. Altman, prima ancora di essere regista, è stato sceneggiatore e romanziere, passando attraverso il documentario prima di arrivare al film. Forse proprio per questo sapeva concentrare l’attenzione su quanto c’è di più surreale nella realtà di tutti i giorni.

Il suo primo successo è M*A*S*H del 1970, che gli vale la Palma d’oro al festival di Cannes, seguito qualche anno dopo da Il lungo addio nel 1973. Mentre la prima pellicola fu un autentico successo di critica e di pubblico, Il lungo addio al botteghino non guadagnò molto, complice il fatto che rispetto al racconto di Chandler cambiavano parecchie cose. Con il tempo il film fu accettato più ampiamente e rivalutato da alcuni critici come il capolavoro di Altman.

Nel 1974 Altman gira California poker, in cui si ritrova la tematica del gioco come centro di gravità della vita: non a caso, infatti, alla fine del film il protagonista è colpito da quel senso di malinconia esistenziale, che gli inglesi chiamano spleen, quando si rende conto che giocare è più interessante che vincere, e che nella vita conta più l’emozione dell’azzardo che il risultato finale. Cinque anni dopo, con Quintet, Altman mostrò addirittura il gioco come soluzione finale di un mondo ormai distrutto, in cui una specie di roulette russa mette in gioco le vite degli ultimi sopravvissuti.  Un gioco dove non si può decidere se partecipare, ma ci si ritrova dentro, come nella vita; così precisa il personaggio di Gregor, interpretato da Fernando Rey, nel monologo che racchiude l’essenza del film.

Ma prima di Quintet, nel 1975, Altman dà sfogo alla sua pungente ironia nel capolavoro Nashville, dove i personaggi si aggirano confusi, vivono, ridono, sognano e piangono, durante i cinque giorni del festival di musica country. Il film è costruito, secondo lo stile tipico in Altman, attorno all’intrecciarsi di vicende apparentemente slegate tra loro, con ventiquattro personaggi diversi che condividono, però, la stessa situazione di festa. Non a caso, a chi gli chiedeva se il film fosse un melodramma, una commedia o una satira, Altman rispondeva che era una metafora.

L’anno successivo firma Buffalo Bill e gli indiani, dissacrazione dell’eroe americano per eccellenza, qui ridotto ad un clown della pistola sullo sfondo della mitologia western. Poi ritorna ai tempi moderni, prendendosela con la condizione femminile e l’istituzione del matrimonio: la prima con i volti incisivi, buffi, teneri e odiosi di Sissy Spacek, Shelley Duvall e Janice Rule in Tre donne del 1977, e poi l’anno dopo con Un matrimonio, un ensemble grottesco che ironizza sull’ipocrisia dei costumi familiari.

Seguirà il flop Popeye – Braccio di ferro, nel 1980, ancora con Shelley Duvall, e altre pellicole non memorabili, fino allo spiazzante America oggi, del 1993, in cui vere protagoniste sono le contraddizioni e le dinamiche più alienanti della società americana. Il film gli valse il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia.

La fortuna di Cookie, del 1999, si presenta come una satira delle rimanenze nella società attuale della borghesia decaduta, in cui Altman si diverte a raccontare una provincia sonnacchiosa, ma sempre pronta a qualche piccola ipocrisia pur di tenere i propri scheletri ben nascosti negli armadi.

Nel 2001 Gosford Park realizza un affresco della decadente società aristocratica inglese nel periodo tra le due guerre mondiali, all’interno del quale vediamo articolarsi ben 48 personaggi tra signori e servitù, secondo quello spirito di coralità tipico del regista.

Infine nel 2006 con Radio America propone dopo trentun anni una nuova Nashville riattualizzandola in uno splendido ritratto corale dei tempi che corrono, con la solita euforia melanconica. Un film sintesi agrodolce della sua carriera, che diventerà epilogo quando il 20 novembre 2006, all’età di 81 anni, muore per le complicazioni derivanti da una forma di leucemia. Il 21 marzo di quell’anno aveva ricevuto l’Oscar alla carriera, purtroppo unico riconoscimento, nonostante ben sette nomination.

«Io registro la realtà, e se la realtà è caotica, non è colpa mia»

FONTI: Enciclopedia del cinema, Rusconi editore – Wikipedia

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Autore: Raffa

Appassionata di cinema e di tutte le cose belle della vita. Scrivo recensioni senza prendermi troppo sul serio, ma soprattutto cerco di trasmettere emozioni.

21 pensieri riguardo “Robert Altman, senza tabù”

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