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Still Alice (2014)

Film affascinante e coraggioso, molto particolare, a cominciare dal titolo. Avrebbe potuto essere semplicemente Alice, oppure About Alice, la storia di una donna come tante altre. Invece la scelta di quell’avverbio dà una prospettiva tutta nuova alla vicenda. Still Alice, ancora Alice, tuttora lei, nonostante tutto, per sempre Alice.

Il film non è tanto la storia di una malattia, devastante e impietosa, che lascia intatto il corpo svuotandolo della sua essenza più intima e umana; è la storia di una donna e della sua lotta, ìmpari e senza speranza, ma non per questo meno tenace e coraggiosa, per non essere annientata. Una donna che vorrebbe rimanere ancora se stessa, nonostante il vuoto che si fa spazio nella sua mente.

Alice è colta, intelligente, istruita e benestante, una donna felice e realizzata, che ha fondato il proprio successo professionale e personale sulla mente e sulle parole, considerandole una base solida e indistruttibile su cui costruire il proprio mondo. Ma il destino a volte ha uno strano senso dell’umorismo. Un giorno, all’improvviso, tutte le sue certezze crollano e proprio a lei, insegnante di linguistica, mancano le parole.

Poi pian piano anche le cose più semplici, come la corsa mattutina, si trasformano in un deserto da attraversare, una distesa di sabbie mobili in cui affonda senza capire perché. E quando arriva la spiegazione, semplice ma inaspettata e imprevedibile, è anche peggio del dubbio. Temeva un tumore, parola che spaventa, certo, ma che spesso lascia aperta una speranza, una possibilità di vittoria. Invece la diagnosi parla di una malattia terribile, impronunciabile per la sua età, eppure tremendamente reale, che non solo non ha nessuna intenzione di lasciarle scampo, ma minaccia di colpire anche i suoi figli, sconvolgendo quindi non solo la sua vita, ma anche gli affetti più cari.

Still Alice è un film splendido, intenso, coinvolgente e commuovente, senza essere melenso. Affronta il tema dell’Alzheimer con delicatezza e sensibilità, ma anche con schietto realismo, senza mai cedere al sentimentalismo, né cercare la lacrima facile. Anzi, se proprio devo dire, non c’è un solo momento in cui si pianga, non c’è disperazione né malinconia, ma piuttosto la dignitosa accettazione di un destino che tuttavia si cerca di rimandare con ogni mezzo.

Va detto però che la storia, e soprattutto la straordinaria interpretazione di Julianne Moore, sconsigliano la visione del film ad un pubblico troppo sensibile o impressionabile, perché la lenta degenerazione di questa donna incantevole e straordinaria è assolutamente realistica e palpabile, al punto che spezza il cuore.

Come all’inizio siamo travolti dalla sfolgorante luminosità della sua intelligenza, che si manifesta ed esplode in ogni parola e persino negli sguardi, allo stesso modo restiamo turbati e poi sconvolti nel vedere gradatamente spegnersi il luccichio dei suoi occhi, insieme alla vivacità delle sue parole, lentamente inghiottite dal silenzio.

E anche la sua lotta, cominciata all’inizio come una battaglia coraggiosa, che intraprende senza risparmiarsi, usando tutte le armi che la sua mente può ancora metterle a disposizione, si trasforma lentamente in una resa incondizionata, anzi in un’incapacità di combattere un nemico che non è più in grado di vedere e riconoscere come tale.

Ed è alla bravura della Moore che viene affidata la scansione cronologica dell’intera vicenda, perché il tempo che passa è visibile solo nell’alternarsi delle stagioni e nei progressi inesorabili della malattia, che si esplicitano sul volto di Alice e nei suoi gesti sempre più annebbiati e rallentati.

Il momento più toccante di tutto il film, quello a mio parere più significativo, ma anche il più difficile da guardare senza distogliere lo sguardo, è la scena in cui la protagonista cerca di mettere in atto il suicidio, preparato accuratamente molto tempo prima, quando ancora poteva avere la consapevolezza e la lucidità di organizzare la sua stessa eutanasia.

In quel momento ci rendiamo tragicamente conto che non c’è più Alice, ma solo l’involucro di quello che è stata, l’ombra di un corpo ormai senz’anima, che cerca di ottenere, senza troppa convinzione, una liberazione che non sa neppure di volere. E anche questo gesto estremo le sarà negato, perché non è più padrona di se stessa e della sua vita.

Oscar meritatissimo a Julianne Moore, sempre molto brava, ma questa volta davvero da brividi nel rappresentare il progressivo decadimento del suo personaggio. A differenza di Dustin Hoffman e Sean Penn che si sono altrove distinti nel rappresentare la diversità, ma lo hanno fatto in maniera lineare, dando vita a personaggi sempre uguali a se stessi, Julianne Moore ha dovuto riprodurre tutti i passaggi della metamorfosi difficile e dolorosa di Alice, e li ha resi in maniera sublime, trasformandosi fisicamente nei gesti, negli sguardi e nelle espressioni del volto, così come nel linguaggio del corpo.

Accanto a lei, protagonista assoluta, c’è la famiglia che l’accompagna nel suo doloroso cammino verso il nulla: Alec Baldwin, attore spesso sottovalutato, qui sembra calarsi molto bene nel ruolo del marito, che inizialmente offre ad Alice tutta la propria disponibilità di tempo e di affetto, ma poi finisce, pur senza cattiveria, per trascurarla, distratto da quel lavoro più che mai necessario per pagare le cure.

A sorpresa, tra i figli di Alice, si distingue una Kristen Stewart particolarmente intensa, liberatasi finalmente dai panni della bella vampira di Twilight. Sarà proprio lei, la figlia ribelle, spesso in disaccordo con la madre eccessivamente intransigente, a prendersi cura di Alice, fino alla fine, prendendola per mano, come una bambina, ricordandole che non tutto va perso, ma qualcosa rimane, e quel qualcosa è l’Amore.

La chiave vincente di questo film, in fondo, sta nella reazione della protagonista alla malattia, ed è quello che impedisce alla pellicola di scivolare nel facile pietismo. Una volta accettato il dramma, e superata l’inevitabile reazione di smarrimento iniziale, si fa strada una straordinaria capacità di sopportazione, che rende il film toccante ma anche equilibrato e meravigliosamente umano.

Tratto dal bellissimo romanzo Perdersi della neuro scienziata Lisa Genova, il film ci racconta la distruzione inarrestabile di un corpo che va di pari passo con il dissolversi della coscienza, della mente e dell’identità stessa, ma soprattutto descrive un desiderio di combattere che non si placa.

La regia, condotta a quattro mani da Richard Glatzer e Wash Westmoreland, trasforma il romanzo in un film introspettivo, in cui lo spettatore viene messo nei panni della protagonista fin dalle prime inquadrature, utilizzando spesso lo strumento del fuori fuoco per accentuare la sensazione di confusione che circonda Alice, e per mostrarci in soggettiva il suo mondo che svanisce gradatamente. E l’effetto sfumato ci porterà fino alla scena finale, in cui l’immagine di Alice si sfuoca gradatamente fino a sparire nella luce. Ma è ancora Alice, nonostante tutto. Perché l’Amore non va mai perso.

Still Alice è un film straordinario, che emoziona in profondità ma riesce a non deprimere. Se pensate di farcela, guardatelo perché è un’esperienza davvero unica.

 

 

 

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Autore: Raffa

Appassionata di cinema e di tutte le cose belle della vita. Scrivo recensioni senza prendermi troppo sul serio, ma soprattutto cerco di trasmettere emozioni.

24 pensieri riguardo “Still Alice (2014)”

  1. Un film che ti distrugge! Un capolavoro che fa capire come la Natura, si diverta! Come può una donna bella, intelligente, colta, spiritosa, ridursi in tale stato? Ti confesso che l’ultima scena mi ha colpito, mi ha disunito! È un film che se anche fa male, è importante e doveroso vedere

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