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John Q (2002)

Questo è uno di quei film che la critica cinematografica seria definirebbe banale, scontato e retorico. Un film in cui la vicenda si scrive da sola, senza possibilità di deviazioni da un copione fatto apposta per coinvolgere e commuovere il pubblico, con situazioni e dialoghi prevedibili e spesso patetici. Un film che gioca su emozioni facili senza approfondirle a sufficienza, una storia con intenti didascalici dove tutto è in funzione della morale che si vuole dimostrare.

Intanto diciamo che la vicenda è ispirata ad un fatto realmente accaduto: Henry Musaka, un 26enne canadese, giunto con il figlioletto al pronto soccorso nella notte di Capodanno, fu obbligato ad aspettare parecchio tempo prima di poter ricevere assistenza e ad un certo punto, per la disperazione, decise di prendere in ostaggio un medico. In breve tempo giunsero sul posto le forze speciali che uccisero il giovane nel tentativo di liberare il medico.

Il problema cardiaco del bambino protagonista di John Q. è invece ispirato alla vita privata di Nick Cassavetes. Il regista è infatti molto sensibile ai problemi dell’assistenza sanitaria avendo dovuto affrontare con la figlia moltissime operazioni per un piccolo difetto al cuore.

È chiaro che guardando la vicenda reale, a cui il film è ispirato, e il risultato cinematografico, le differenze sono notevoli e stridono sicuramente con un concetto anche approssimativo di film-verità. Tuttavia quello che è encomiabile, e rende il film a mio avviso molto apprezzabile, è la finalità di denuncia sociale che traspare dal lavoro di Cassavetes.

Nel film il protagonista deve affrontare una situazione paradossale e lo fa in modo paradossale: l’unica cosa che potrebbe salvare la vita al figlio, malato di cuore, è un trapianto, ma la sua assicurazione non copre le spese, perciò l’ospedale decide di dimettere il piccolo, ammettendo, senza pudore né reticenze, che al padre non resta che aspettare e guardarlo morire.

Di fronte alla situazione disperata, John Quincy tira fuori una pistola, minaccia un medico e si chiude nel pronto soccorso, tenendo in ostaggio anche i pazienti e gli altri medici presenti. La richiesta è semplice quanto ovvia: libererà tutti solo quando il figlio verrà sottoposto gratuitamente al trapianto che gli salverà la vita. Ma la situazione si complica ancora, perché occorre un cuore compatibile.

E qui arriva il colpo di teatro, forse esagerato, esasperato e retorico, ma quale genitore non sarebbe disposto a dare la vita per il proprio figlio? E poi, al momento giusto, un altro colpo di scena apre la porta ad una conclusione che, se non è proprio un lieto fine forzato, si allontana comunque da un epilogo realistico.

L’argomento è scottante e il film ne mostra tutti gli aspetti, da quelli primari e più evidenti a quelli di contorno: c’è un J’accuse contro il sistema sanitario americano, in cui la misura della vita è affidata al denaro; c’è il valore della famiglia e il sacrificio del padre per il figlio, contrapposto all’insensibilità della legge; ci sono i soliti modi di procedere della polizia, con l’eterno conflitto tra il poliziotto spietato e quello comprensivo, e infine c’è la presenza ingombrante dei media che dilatano l’azione nel bene e nel male.

Ci sono anche, è innegabile, situazioni e personaggi stereotipati, non approfonditi, soluzioni narrative decisamente scontate, come la felicità apparentemente perfetta della famigliola prima della tragedia, che si trasforma in un incubo senza uscita per il concatenarsi di ostacoli insormontabili, e si risolve poi, miracolosamente, per il verificarsi altrettanto improvviso di fortunate coincidenze.

Quello che la critica non perdona al regista, e in fondo anche agli attori, definiti fin troppo impeccabili nei loro ruoli e talmente bravi da risultare sprecati, è una retorica un po’ troppo sdolcinata, che finisce per soffocare il messaggio di denuncia alla base della pellicola.

A me invece è sembrato proprio questo un punto di forza del film, l’esagerazione che domina quasi ogni scena: eccesso di emozioni e di commozione, esasperazione di difficoltà e di dolore, tutto concorre a dimostrare l’enormità dell’ingiustizia inflitta e la dimensione paradossale delle sue conseguenze. Per una volta le lacrime non sono fini se stesse, ma hanno lo scopo di lanciare un segnale di denuncia ben preciso, coinvolgendo al massimo lo spettatore. E anche il lieto fine consolatorio, in questo caso, vuole aggiustare, almeno nella finzione, quelle ingiustizie che nella realtà sembrano insanabili.

Nel complesso il film mi sembra un prodotto più che dignitoso dal punto di vista cinematografico, e va guardato anche per l’ampio ventaglio di tematiche serie che propone, sicuramente da approfondire in altra sede. E questo sembra anche voler suggerire il regista, quando nel film inserisce una serie di immagini reali, in stile documentario, di politici e personaggi famosi, da Jay Leno a Hillary Clinton, che rivendicano una riforma della sanità pubblica americana. Quasi a voler dire che il film ha risolto a modo suo, ma il problema esiste realmente e va risolto altrove.

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Autore: Raffa

Appassionata di cinema e di tutte le cose belle della vita. Scrivo recensioni senza prendermi troppo sul serio, ma soprattutto cerco di trasmettere emozioni.

16 pensieri riguardo “John Q (2002)”

  1. Il film è gradevole, ma il messaggio trasmesso è diseducativo.
    Il protagonista non ha pensato che, col proprio gesto, avrebbe potenzialmente scavalcato altri bisognosi.
    Tra l’altro il cuore è andato a un appassionato di culturismo, quindi doping a iosa e cuore nuovo a puttane dopo i trent’anni.

    Piace a 1 persona

  2. concordo sulla tua recensione , il film subito mi ha lasciata perplessa, certo commosssa dalla storia, ma un po’ perplessa per tutte le ragioni che giustamente tu citavi, poi ragionandoci ho pensato che come denuncia andava bene, anche le esagerazioni che ci sono! ciaoo e bravissima a recuperare anche film che hanno fatto discutere! ciaoo e buona giornata

    Piace a 1 persona

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