Jennifer Jones, gli occhi che non sorrisero

Il suo vero nome era Phyllis Lee Isley. Nata a Tulsa, in Oklahoma, il 2 marzo 1919, in una famiglia di attori girovaghi del varietà, decise di fare l’attrice contro il parere dei genitori, che avrebbero voluto farla studiare. Lei invece lasciò l’università di Evanston dopo un solo anno e si iscrisse alla American Academy of Dramatic Arts di New York. Prese prima parte ad alcuni spettacoli teatrali, poi cominciò a lavorare dal 1938 come attrice alla radio, per poi esordire nel cinema interpretando alcuni western di routine dallo schema ripetitivo, in cui impersonava sistematicamente l’eroina destinata a baciare l’amato cow boy solo nella scena finale.

Bernadette (1942)

In questo primo periodo usava ancora il suo vero nome, che cambiò in quello con cui è diventata famosa quando fu notata dal produttore David O. Selznick, che la mise sotto contratto dal 1941. Fu lui ad affidarle il ruolo della protagonista nel film Bernadette, che segnò il suo vero esordio e il suo primo, grande successo: l’interpretazione le valse il suo unico Oscar. A parte questo, detiene il record, assieme a Thelma Ritter, Marlon Brando, Elizabeth Taylor e Al Pacino, di essere stata candidata all’Oscar per quattro volte consecutive.

Fra le tue braccia (1946)

Dopo Bernadette iniziò la sua definitiva scalata al successo, propiziata anche dal matrimonio con Selznick, avvenuto nel 1949, dopo che l’attrice aveva divorziato dall’attore Robert Walker, suo primo marito. Per evitare di rimanere incastrata nel ruolo della santa, preferì avventurarsi in ruoli passionali e violenti, alimentando nel tempo la sua immagine di attrice drammatica, connotata da una forte sensualità e da una bellezza aggressiva. L’anno della consacrazione fu il 1946 durante il quale fu protagonista di due film di grande successo: Fra le tue braccia, del maestro Ernst Lubitsch, in cui disegnò una fanciulla di umili origini che si innamora di un intellettuale polacco, mettendo in evidenza le rigide convenzioni del mondo inglese; e Duello al sole, di King Vidor, a cui è legata l’immagine più famosa e suggestiva dell’attrice, quella della splendida meticcia che scatena la drammatica rivalità tra due fratelli.

Duello al sole (1946)

Al fianco di Joseph Cotten e di Gregory Peck, in un inconsueto ruolo negativo, lasciò emergere tutto il suo conturbante erotismo, in particolare nel famoso duello finale in cui l’amore si intreccia definitivamente alla morte. Successivamente si specializzò in melodrammi sentimentali che se da un lato hanno addolcito la sua figura provocante, dall’altro non le hanno permesso di cimentarsi con personaggi carismatici che avrebbero potuto imporla definitivamente nel ricordo del pubblico, come è accaduto ad altre attrici divenute veri simboli dell’immaginario.

Il ritratto di Jennie (1948)

Nel 1948 è di nuovo accanto a Joseph Cotten ne Il ritratto di Jennie, un film delicato e onirico in cui la Jones disegna con notevole sensibilità l’evanescente figura femminile di cui è innamorato il pittore protagonista, e che si rivelerà un’apparizione sovrannaturale. L’anno dopo, ha la felice occasione di lavorare con Vincente Minnelli in una bella riduzione di Madame Bovary, in cui rivelò capacità di recitazione più sobrie e intimiste.

Gli occhi che non sorrisero (1952)

Più convenzionali gli altri melodrammi interpretati: da Gli occhi che non sorrisero (1952), di William Wyler, a Addio alle armi (1957), di Charles Vidor, versione patinata del romanzo di Hemingway, fino a Tenera è la notte (1962), di Henry King, altrettanto patinata versione del romanzo di F.S. Fitzgerald. Il melodramma più noto, retorico e popolare che la vide protagonista rimane comunque L’amore è una cosa meravigliosa (1955), sempre di H. King: giocato su tutti i cliché più tipici del genere, compresa una colonna sonora suadente e di grande successo, la vede nei panni di una ragazza euroasiatica che, tra pregiudizi, crudeli pettegolezzi e difficoltà di ogni tipo, ama, riamata, un giornalista americano destinato a morire in Corea.

L’amore è una cosa meravigliosa (1955)

Come altre star hollywoodiane, Jennifer Jones ha avuto una vita privata non sempre facile, funestata anche dalla perdita di una figlia. La separazione dal primo marito, l’attore Robert Walker che l’aveva scoperta e portata a Hollywood, le aveva causato una profonda crisi, al punto che tentò per due volte il suicidio. Il matrimonio con David O. Selznick, tra gli artefici del suo immediato successo, le diede un nuovo motivo per vivere, ma nel tempo si rivelò un autentico boomerang per la sua carriera.

Tenera è la notte (1962)

Forse non è un caso che durante gli anni passati con il più famoso (e odiato) produttore di Hollywood, sia stata candidata all’Oscar per ben quattro volte, ma non sia riuscita a vincerlo. La morte di Selznick, nel 1965, le procura un violento esaurimento nervoso che la porta nuovamente vicino al suicidio, e mette di fatto fine alla sua carriera. Lascia il cinema a soli 46 anni. Tornerà nel 1974 con una breve apparizione nel film catastrofico L’inferno di cristallo, partecipazione che rivela più una momentanea nostalgia per il grande schermo che un serio tentativo di riprendere la carriera interrotta.

L’inferno di cristallo (1974)

L’anno dopo deve affrontare la morte per suicidio dell’unica figlia, Mary, avuta da Selznick. Nel 1981 tenta l’ultima carta per rimettersi in gioco: acquista i diritti del romanzo di Larry McMurtry, Voglia di tenerezza, per proporsi come attrice nell’analogo film, ma il regista James Brooks, ritenendola troppo anziana, affida la parte a Shirley MacLaine, che per questo ruolo vincerà l’Oscar. L’attrice muore per cause naturali nella sua casa di Malibu, il 17 dicembre 2009. Aveva 90 anni. Il suo corpo è stato cremato e le sue ceneri sono state sepolte in California, accanto al suo secondo marito, nella cappella privata di Selznick.

«Se potessi scegliere una sola cosa che mi accompagni per tutta la durata della mia vita, sceglierei il senso dell’umorismo»

FONTI: Enciclopedia del cinema, Treccani – cinekolossal

Autore: Raffa

Appassionata di cinema e di tutte le cose belle della vita. Scrivo recensioni senza prendermi troppo sul serio, ma soprattutto cerco di trasmettere emozioni.

20 pensieri riguardo “Jennifer Jones, gli occhi che non sorrisero”

    1. Non so come funziona un braccio di ferro tra regista e produttore… So che Clint Eastwood, per I ponti di MC, si oppose alla produzione che voleva imporgli Sharon Stone: rispose che se non avesse avuto Meryl Streeep se ne sarebbe andato.

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    1. Per quel che so, era particolarmente puntiglioso e pignolo, per cui complicava la lavorazione dei film finché non era tutto perfetto come voleva lui. Poi so che molti gli invidiarono il successo di Via col vento, su cui nessuno avrebbe scommesso: aveva comprato i diritti del libro per una cifra folle e tutti pensavano che sarebbe stato un flop. Invece fu il successo che sappiamo, e questo non piacque. Aggiungi che era immigrato dalla Lituania (mi sembra) e di origini ebraiche…

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      1. Ah, ma che i produttori abbiano quest’atteggiamento dittatoriale è risaputo, non è certo un difetto del solo Selznick. Si comportano quasi tutti così un po’ perché temono di perdere l’enorme quantità di soldi che hanno investito in un film, un po’ perché loro riescono a vedere un film anche dal punto di vista economico e non solo artistico, e quindi capiscono che certe trovate magari dal punto di vista artistico sono belle, ma dal punto di vista economico fanno vendere meno biglietti, e quindi impongono ai registi di modificare le proprie decisioni.
        Per farti un esempio: magari un regista vorrebbe far uscire il proprio film in sala con un minutaggio di 180 minuti, perché ritiene artisticamente bella ogni singola scena che ha girato e quindi non vuole tagliarne nessuna. Un produttore però sa bene che un film di 180 minuti farebbe flop anche se lo dirigesse Spielberg, e quindi lo tagliuzza finché i minuti non diventano 120. Ammetto che nei panni del produttore mi comporterei così anch’io. Tu invece da che parte stai, da quella dei registi o da quella dei produttori?

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        1. Beh, indubbiamente il produttore ha il suo punto di vista, dato che per lui è solo un investimento, però anche il regista ha le sue ragioni. Difficile prendere una posizione. L’ideale sarebbe il regista produttore di se stesso. Qualcuno c’è. Tornando a Selznick, pare che fosse proprio un dittatore, non sentiva ragioni. A quel che so, ogni tanto i registi riescono anche a spuntarla, se puntano i piedi e minacciano di mollare tutto. Con lui non ci si riusciva.

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        2. L’esempio di Spielberg non l’ho fatto a caso, perché i suoi ultimi 2 film sono stati un flop al botteghino proprio per questo motivo: in una società dove la gente è abituata a guardare i video da un minuto massimo su TikTok, non puoi pretendere che gli spettatori vadano a vedere un film che di minuti ne dura CENTOCINQUANTA. E’ incredibile che un uomo intelligente come Spielberg non riesca ad afferrare un concetto così ovvio, ed è incredibile anche che oggi il suo nome sia sinonimo di flop, proprio lui che una volta era un’autentica macchina da soldi. Grazie per la risposta! 🙂

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