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Woody Allen, un comico in analisi

Per comprendere l’essenza e le radici del genio comico di Woody Allen, si è spesso tentato di paragonarlo a personaggi come Chaplin, Buster Keaton o Groucho Marx. Al di là di possibili paralleli, che sono necessariamente difficili e impropri, è certo che l’umorismo di Allen si inserisce nella tradizione culturale ebraico-americana, che usa l’autoironia, la battuta surreale, il paradosso e il nonsense, come armi vincenti.

La sua comicità, che rinuncia quasi del tutto alla mimica e alla smorfia, nonostante sia dotato di un aspetto che si presterebbe al ridicolo, nasce dal confronto diretto con la realtà quotidiana, fatta di ambizioni frustrate, rapporti umani e sociali difficili, contraddizioni e compromessi, tutte cose con cui ognuno di noi ha a che fare ogni giorno e in cui può facilmente identificarsi. Forse ci sarebbe ben poco da ridere, a ben guardare. Ma il suo humour raffinato ed intellettuale, a volte buffo e patetico, a volte grottesco e corrosivo, ha saputo toccare le corde giuste, ed è arrivato al cuore del pubblico di mezzo mondo, che si è facilmente identificato in questo newyorkese non proprio bellissimo, occhialuto, lentigginoso e mingherlino, e decisamente imbranato. Allen è diventato l’antieroe per eccellenza di un’America amata, ma anche impietosamente messa a nudo nei suoi falsi miti, nelle sue illusioni, nelle sue fobie e nei suoi tabù.

Proveniente da una famiglia di origini ebraiche, dopo scarsi successi scolastici, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 si dedicò a scrivere gag e sketch teatrali e televisivi, diventando uno dei tanti aspiranti comici che cercavano di avere successo nei locali del Greenwich Village, ma senza l’onore della firma. Il suo esordio come regista arriva nel 1969 con Prendi i soldi e scappa, parodia del poliziesco anni ’50 con voce fuori campo.

Ogni suo film è l’occasione per un’analisi autobiografica, che affonda le radici in un’infanzia povera, vissuta sulle strade di Brooklyn, e in un’adolescenza piena di complessi e delusioni di cui, crescendo, non si è liberato. Nelle sue opere, quindi, la satira dei luoghi comuni, della cultura di massa e dello stile di vita americano, si fonde con il racconto autobiografico e introspettivo, in una riflessione che diventa autoanalisi, e tocca le tematiche più svariate.

In Prendi i soldi e scappa, del 1969, ironizza sulla società che crede di difendersi dal crimine prendendosela con i più deboli; ne Il dittatore dello stato libero di Bananas, del 1971, prende di mira le pseudo rivoluzioni e l’equivoco sul concetto di libertà. L’anno successivo recita, diretto da Herbert Ross, in Provaci ancora Sam, tratto dall’omonima commedia teatrale dello stesso Allen: il film rivela al mondo il suo notevole talento comico e lo fa apprezzare dal grande pubblico. Seguono poi Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso, ma non avete mai osato chiedere, nello stesso anno, che è una satira della sessuomania, e Il dormiglione, nel 1973, che proietta in un futuro di fantascienza i catastrofici effetti della società tecnologica.

Amore e guerra, del 1975, è una riflessione amara su grandi temi esistenziali come la vita, la morte, l’amore e la religione; Il prestanome, del 1976, rievoca gli anni bui del Maccartismo; Io e Annie, del 1977, (premiato con 4 Oscar) è la malinconica constatazione della fragilità dei rapporti di coppia e della difficoltà di una reciproca comprensione; Interiors, dell’anno dopo, rappresenta lo sfaldamento di una famiglia altoborghese, con accenti quasi bergmaniani.

Dopo Manhattan, del 1979, uno splendido affresco in bianco e nero che dipinge con toni beffardi la vita dell’élite intellettuale di New York, Allen sembra essersi ripiegato su se stesso. Con Stardust Memories, del 1980, inizia una nuova fase della filmografia di Allen, in cui il regista e attore sembra fortemente tentato dal voler mostrare solo il lato tragico della vita, togliendosi definitivamente la maschera da clown, e inserendo nei suoi film diversi riferimenti filosofici. La sua attività appare sempre più lontana dai prodotti hollywoodiani e indirizzata a un pubblico non di massa, ma culturalmente e socialmente connotato.

Capolavoro assoluto in questo senso è Zelig, del 1983, costruito su registri diversi intrecciati tra loro: il cinegiornale anni ‘30, ma anche l’inchiesta televisiva, la struttura da cinema verità e il film dai risvolti sociali. Il film, ambientato alla fine degli anni ‘20 e incentrato sul caso clinico di un uomo capace di assimilare l’identità dei suoi interlocutori, al punto da assumerla interamente, al di là del suo aspetto ludico, è un appassionante discorso sugli Stati Uniti, il loro bisogno di miti e le tentazioni dell’assimilazione e del conformismo. Questo periodo drammatico, in cui la produzione di Allen abbandona i toni di commedia per assumere sempre più quelli di paure ancestrali e angosce quasi kafkiane, coincide stranamente con il sodalizio sentimentale e artistico con Mia Farrow. Non a caso, quando nel 1993 Allen torna ai ritmi travolgenti della commedia, con Misterioso omicidio a Manhattan, ritrova come protagonista Diane Keaton e la sua brillante presenza. Allen, anche dopo il suo ultimo matrimonio, con Soon-Yi Previn, ha sempre definito Diane Keaton come il grande amore della sua vita, la donna con cui ha avuto, e ha tuttora, maggiore affinità.

Successivamente ha alternato prove più stanche e ripetitive, come Celebrity del  1998, sugli effetti per lo più spiacevoli del successo o La maledizione dello scorpione di giada, del 2001, parodia non del tutto riuscita dei noir anni ’40, ad altri film riusciti e raffinati come Pallottole su Broadway, del 1994,  o il piacevole La dea dell’amore, dell’anno seguente, in cui il gioco delle citazioni colte viene amplificato sino a coinvolgere l’uso del coro, ispirato alla tragedia greca, per scandire le fasi di una vicenda tutta contemporanea e newyorchese. Ha rivisitato poi il suo periodo migliore con un film toccante, Accordi e disaccordi del 1999, e l’anno dopo, con Criminali da strapazzo, in cui ritorna ai puri meccanismi comici degli inizi.

Negli ultimi vent’anni la produzione di Allen si è indirizzata ad una comicità sempre più raffinata e intellettuale, e questo suo stile sempre più ricercato e cerebrale ne ha fatto uno degli autori più venerati, ma nello stesso tempo lo ha allontanato sempre di più dal grande successo di pubblico riscosso negli anni d’oro, facendolo diventare un punto di riferimento nella commedia colta, tanto amata dalla critica americana.

“Non voglio raggiungere l’immortalità attraverso le mie opere; voglio raggiungerla vivendo per sempre. Non mi interessa vivere nel cuore degli americani; preferisco vivere nel mio appartamento”

FONTI: Enciclopedia del cinema, Rusconi editore – Enciclopedia del cinema Treccani

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Autore: Raffa

Appassionata di cinema e di tutte le cose belle della vita. Scrivo recensioni senza prendermi troppo sul serio, ma soprattutto cerco di trasmettere emozioni.

30 pensieri riguardo “Woody Allen, un comico in analisi”

  1. Ho visto alcuni film di Allen, quasi tutti recenti, di conseguenza non sono una grande intenditrice. Tra questi Midnight in Paris è quello che mi è rimasto più impresso, l’ho trovato davvero piacevole. Articolo super interessante, come sempre. Ti auguro una felice giornata ❤️

    Piace a 1 persona

    1. Infatti come umorista è bravissimo. Ho volutamente tralasciato le storie sulla sua vita privata perché non è stato ancora chiarito nulla, e temo che la verità, come sempre, non si saprà mai. Certo che uno che si sposa la figlia adottiva, tanto normale non dovrebbe essere…

      Piace a 1 persona

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