1918 – 1983
Grande autore del cinema americano, ne ha affrontato i principali generi, dal western al film di guerra, dal noir fino al thriller, rivisitandoli attraverso una sua personale riscrittura, con indubbia capacità tecnica e con un notevole senso dell’azione. È riuscito a far emergere i temi caratteristici del suo cinema attraverso l’essenzialità delle sue scene d’azione, la sua capacità di rivelare aspetti inquietanti dei rapporti umani e di costruire un’atmosfera opprimente, influenzando registi delle generazioni successive come Sam Peckinpah, Walter Hill, Quentin Tarantino e John Woo.

Robert Burgess Aldrich nasce a Cranston (Rhode Island) il 9 agosto 1918. Di famiglia alto borghese, approdò a Hollywood giovanissimo dopo aver intrapreso, senza però laurearsi, gli studi in scienze economiche alla University of Virginia. Dopo un lungo tirocinio presso la RKO come sceneggiatore, direttore di produzione, assistente di autorevoli registi come Renoir, Zinnemann, Milestone, Losey e Chaplin, e una serie di telefilm di successo, esordì come regista nel 1953 con Il grande alleato, cui seguì l’anno dopo il film di spionaggio Singapore: intrigo internazionale. Ma è proprio nei generi canonici del western, del poliziesco e del bellico che si espresse pienamente il suo stile potente e teatrale.

Elementi costitutivi del suo cinema sono la predilezione per l’azione e l’avventura, senza però trascurare l’indagine psicologica, l’esaltazione delle figure eroiche e dei grandi ideali; e poi ancora l’importanza del suicidio come gesto di rivolta, lo spazio limitato concesso alle situazioni amorose, la preferenza data alla narrazione picaresca e allo spettacolo, rispetto alla suspense. Tutte queste caratteristiche si ritrovano di volta in volta in film come L’ultimo Apache (1954), uno dei primi che riabilita gli Indiani, Vera Cruz (1954) che con l’ambientazione messicana arricchisce il genere di significati ideologici e rivoluzionari, Un bacio e una pistola (1955) che sulla base di un romanzo di Spillane rilegge il noir in chiave di angosciante pessimismo e visionaria violenza, e soprattutto Prima linea (1956), ambientato nella Francia del 1944 e in cui, attraverso la figura di un ufficiale americano incompetente e vigliacco, vengono esasperati i canoni del film di guerra, prediligendo un forte realismo soprattutto nelle scene di battaglia.

Sono tutte opere in anticipo sui tempi, in un periodo in cui a Hollywood si avvertiva comunque l’esigenza di un rinnovamento. E non a caso Aldrich in quegli anni realizzò Il grande coltello, spietato ritratto del mondo hollywoodiano e denuncia della corruzione dell’ambiente del cinema, seguito da Foglie d’autunno, un malinconico melodramma al femminile, con Joan Crawford protagonista, che gli valse il premio per la miglior regia al Festival di Berlino. Aldrich ritornerà periodicamente a dirigere film di guerra e western che gli consentiranno di esprimere nelle forme a lui più congeniali i valori della libertà, del sacrificio, dell’eroismo.

Il volo della Fenice (1965), incentrato sui superstiti di un volo aereo di una compagnia petrolifera precipitato nel Sahara, aprì invece una trilogia incentrata su gruppi di uomini osservati in situazioni critiche di estrema difficoltà, che proseguì due anni dopo con Quella sporca dozzina, corale opera antimilitarista di grande successo commerciale, in cui dodici delinquenti si redimono compiendo contro i nazisti azioni più ripugnanti di quelle per le quali sono stati condannati; la trilogia si concluse nel 1970 con Non è più tempo di eroi, vigorosa e appassionante avventura bellica ambientata durante il secondo conflitto mondiale, con un finale in cui la guerra viene associata al football americano.

Aldrich diresse anche altri western fuori dagli schemi, che oscillano tra le ambizioni culturali da tragedia greca de L’occhio caldo del cielo, con Kirk Douglas, e la comicità farsesca de I quattro del Texas, con Frank Sinatra e Dean Martin nel ruolo di due lestofanti rivali che si alleano per non perdere un cospicuo bottino; tra il radicalismo di Nessuna pietà per Ulzana, che riprende l’atteggiamento filo indiano di Apache, e la rilettura del genere in chiave di commedia di Scusi, dov’è il West?, con un giovane Harrison Ford.

Ma Aldrich si misurò anche con altri generi per destabilizzarli con i suoi antieroi. Dopo l’insuccesso del kolossal Sodoma e Gomorra, arrivò il riscatto commerciale con Che fine ha fatto Baby Jane? (1962), thriller psicologico interpretato da due mostri sacri come Bette Davis e Joan Crawford: il film è caratterizzato da un’atmosfera claustrofobica in cui traspaiono rabbia, perfidia e odio repressi, ma sempre sul punto di esplodere. Lo stesso schema e la stessa formula vennero ripresi ed esasperati in Piano… piano, dolce Carlotta (1964), che ebbe sette nominations agli Oscar, ancora con la Davis e Olivia de Havilland al posto della Crawford, un thriller gotico a metà tra horror e melodramma.

Dopo Il grande coltello, Aldrich si cimentò nuovamente con il mondo dello spettacolo visto come realtà televisiva squallida e corrotta ne L’assassinio di Sister George (1968) e come microcosmo hollywoodiano, in Quando muore una stella, dello stesso anno. Anche quello della Grande Depressione si rivelò contesto ideale per esaltare il suo convinto antieroismo. Nel 1973 L’imperatore del Nord avvolge di cadenze epiche il romanticismo della disfatta, mostrando la lotta spietata tra Lee Marvin e Ernest Borgnine, su uno dei treni merci che trasportavano clandestinamente i vagabondi senza lavoro, costretti a spostarsi da uno Stato all’altro proprio durante la grande crisi degli anni Trenta.

Autore a volte volutamente sgradevole, squilibrato, eccessivo, Aldrich ha stemperato nel tempo il suo furore in tonalità più crepuscolari, ma sempre con l’intento di raccontare il declino della società statunitense, con opere discontinue e tuttavia di grande personalità: dal sociologico Quella sporca ultima meta (1974), con la famosa sequenza della partita tra detenuti e secondini, al noir romantico Un gioco estremamente pericoloso (1975) fino a I ragazzi del coro (1977), spietato e crudo ritratto della polizia corrotta di Los Angeles. Il suo ultimo film fu California dolls, nel 1981, nel quale le vicende di due lottatrici di catch e del loro manager sono un pretesto per riflettere sul rapporto tra la violenza della realtà e quella dello sport. Il film non ebbe successo in America, mentre fu apprezzato in Europa, e Aldrich avrebbe voluto farne un sequel, ma si ammalò prima di poterlo realizzare.
Il 5 dicembre 1983, a soli 65 anni, morì in seguito a un’insufficienza renale. Era stato sposato per 24 anni con Harriet Foster, da cui ha avuto 4 figli, Adell, Alida, William, e Kelly; nel 1966, dopo aver divorziato, aveva sposato la modella Sibylle Siegfried che è rimasta con lui fino alla fine.

«Non credo che la violenza nei film generi violenza nella vita, è la violenza nella vita che genera la violenza nei film»
FONTI: Enciclopedia del cinema, Treccani – skyspettacolo.it
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Non lo ricordavo se non avessi letto il film da te citato “Il volo della fenice”, tutti gli altri sempre da te nominati, credo di non averli visti. Buona serata cara Raffa 🌻
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Grazie Giusy, buona serata anche a te. Colgo l’occasione per dirti che mi sono iscritta al tuo bellissimo blog, ma non sono riuscita a entrare col mio avatar. Sono segnata come Raffaella. Sono un po’ imbranata fuori da Wp…
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Buona serata 1 Stamattina erano chiusi i commenti
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Me ne sono accorta in ritardo. Buongiorno
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