Conosciuto come William, ma all’anagrafe Will Wyler, era di nazionalità tedesca, naturalizzato statunitense. Nato da famiglia ebrea all’inizio del secolo scorso, il primo luglio 1902, a Mulhouse, in Alsazia, aveva ricevuto una raffinata educazione francese, studiando economia e commercio a Losanna e violino al conservatorio di Parigi. Della sua origine europea e della sua nascita in una zona di confine Wyler non si dimenticò mai, anche se nel 1920 fu mandato a New York dallo zio Carl Laemmle, fondatore della casa di produzione Universal, e da lui venne introdotto nel mondo del cinema hollywoodiano, dove si limitò inizialmente a modeste funzioni, lavorando soltanto occasionalmente in produzioni più impegnative.

Inizia così la sua attività registica, dirigendo una trentina di brevi western che gli permettono di svolgere un utile apprendistato. La sua vera passione, tuttavia, non sono i film d’azione, ma i drammi psicologici in ambienti ristretti e le messinscene di stampo teatrale. Grazie all’uso degli obiettivi a profondità di campo, messi a punto negli anni ‘30 dal cineoperatore Gregg Toland, Wyler riesce a dare il massimo significato ad ogni singola immagine, riuscendo al suo interno a mantenere a fuoco più personaggi su piani diversi, e quindi a diminuire l’importanza del montaggio a favore della costruzione interna all’inquadratura.

Diventa presto il regista per eccellenza dell’età d’oro di Hollywood, anche se deve affrontare spesso contrasti e difficili negoziazioni con grandi produttori e attori di talento. Nel corso degli anni ’30 i rapporti fra il regista e il produttore Samuel Goldwyn, con cui aveva firmato un contratto nel 1926, divennero sempre più problematici: fra il 1936 e il 1939, Goldwyn, oltre a obbligarlo a terminare e a firmare un film di Howard Hawks, Ambizione, di cui Wyler era insoddisfatto, gli impose di girare in studio, invece che sui luoghi dell’azione come il regista avrebbe voluto, La voce nella tempesta, riduzione del romanzo Cime tempestose di E. Brontë. In questo film fu inoltre inserito per volontà di Goldwyn un finale che fece inutilmente protestare il regista, con i fantasmi di Heathcliff e di Catherine che si allontanano fra musiche celestiali.

La Seconda guerra mondiale, a cui Wyler partecipò combattendo, non interruppe la sua carriera, anzi gli offrì l’occasione di ottenere i suoi massimi successi di pubblico e di critica. Oltre a due notevoli documentari realizzati per la sezione fotografica della U.S. Air Force, Wyler firmò infatti per la Metro Goldwyn Mayer uno dei film più amati di quegli anni, La signora Miniver, del 1942, commovente omaggio alla Gran Bretagna in guerra e alle sue eroiche “donne in attesa”. Anche questa volta dovette combattere con la produzione, troppo preoccupata del mercato europeo per poter inserire nel film un perfido aviatore nazista, catturato dall’indomita eroina, e un discorso finale del parroco del villaggio, che incita alla resistenza contro il nemico. Il film gli vale il suo primo Oscar come miglior regista.

Subito dopo la fine della guerra, Wyler realizzò il suo film più celebrato e premiato, I migliori anni della nostra vita, sul disagio dei reduci ritornati in famiglia segnati dalla guerra nel corpo e nello spirito: con questo ottiene il suo secondo Oscar alla regia. Fra il 1949 e il 1952, lavorando alla Paramount per un produttore meno invadente di Goldwyn, Wyler tornò ai classici di stampo teatrale con L’ereditiera, interpretato da Olivia de Havilland, Ralph Richardson e Montgomery Clift: un film perfetto, sul piano dell’ambientazione, della progressione drammatica, di una fluida narrazione realizzata quasi tutta in interni, e soprattutto della recitazione, nonostante la realizzazione problematica.

Nel 1951 diresse Pietà per i giusti, con Kirk Douglas, ambientato in una stazione di polizia e centrato sulla figura di un funzionario troppo rigido di fronte a un doloroso dramma familiare. L’anno dopo è la volta de Gli occhi che non sorrisero, film che, pur ricco di risvolti inediti e interessanti, risentì del clima di sospetto in cui si svolse la lavorazione: la protagonista Ginger Rogers (poi sostituita da Jennifer Jones) si ritirò dichiarando che si trattava di un film comunista.

La Paramount così ne bloccò a lungo la distribuzione e la consentì solo dopo aver eliminato alcune scene relative al degrado economico del protagonista e al suo suicidio finale, approfittando del fatto che il regista si trovava in Italia per girare Vacanze romane. Quest’ultima pellicola fu per Wyler una vera e propria ‘vacanza’ nel mondo della commedia che gli consentì di allontanarsi dai dettami della produzione, tanto da poter offrire una collaborazione sia pure ufficiosa a Dalton Trumbo e ad altri sceneggiatori che erano stati messi al bando perché accusati di comunismo: un gesto coerente con la coraggiosa battaglia che Wyler aveva personalmente combattuto per difendere, fin dall’inizio, i colleghi finiti sulle liste nere.

Gli ultimi film del regista, realizzati fra il 1955 e il 1970, spaziano in aree e generi diversi e vengono per lo più considerati rivisitazioni di formule risapute. Ore disperate, del 1955, è un bel poliziesco che diede vita a una serie di imitazioni televisive; La legge del Signore o L’uomo senza fucile, del 1956, è una piacevole rievocazione del mondo dei quaccheri e del loro pacifismo messo a dura prova dalla guerra di Secessione; Il Grande Paese, del 1958, è un western anomalo che rivede il genere con una certa ironia, spogliandolo del suo contenuto retorico, e contiene anche una metaforica apologia della non violenza.

Del 1959 è il colossale remake di Ben Hur le cui scene migliori non sono però firmate da Wyler, ma appartengono alle seconde unità, dirette da Andrew Marton, Sergio Leone (non accreditato) e Yakima Canutt. Tuttavia il film gli regala il terzo Oscar e il Golden Globe per la miglior regia. Gli ultimi film rilevanti furono due commedie: Come rubare un milione di dollari e vivere felici, nel 1966, in cui Wyler si trovò a lavorare di nuovo con Audrey Hepburn, e Funny girl, nel 1968, che lanciò Barbra Streisand.

Nonostante sia considerato il regista degli Oscar, perché i suoi film ne hanno collezionato in tutto 39, le sue incursioni nei generi più collaudati non gli furono perdonate dalla critica europea incentrata sul cinema d’autore, che quasi cancellò il suo nome dalla storia del cinema. Solo dagli anni ’90 in poi la sua opera fu rivalutata. Dopo la morte del regista, avvenuta il 27 luglio del 1981, fu presentato su iniziativa della figlia Catherine un bel documentario sulla sua vita e la sua opera, firmato da Aviva Slesin, mentre nel 2002, per il centenario della sua nascita, l’Academy gli ha dedicato una commovente serata con la partecipazione dei suoi collaboratori più famosi.

«Per fare un buon film conta per l’80% una buona sceneggiatura, e per il 20% poter disporre di bravi attori. Non serve nient’altro»
FONTI: Enciclopedia del cinema, Treccani – mymovies
Buon giorno 1 Si è dimenticato della cosa principale i soldi.
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Buongiorno a te. Giusto, senza quelli non si va da nessuna parte
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Non è che sia poco, buona giornata!
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Buona giornata a te 🙂
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