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Cosa fare a Denver quando sei morto (1995)

Gli anni ’90 sono stati un periodo fecondo per il genere poliziesco e per il thriller. Alcune di queste pellicole le abbiamo certamente rimosse, altre invece sono rimaste nella memoria per le loro caratteristiche che le hanno rese in qualche modo uniche e originali. Questo film è uno di quelli che non si dimentica facilmente, sia per la trama, curiosa e relativamente nuova, sia per le caratterizzazioni degli attori, ognuno mirabile nel suo piccolo o grande ruolo, sia per la violenza che pervade tutta la vicenda come un’ombra minacciosa, dando al tutto un’aura di tragedia greca, dove i protagonisti cercano inutilmente di fuggire all’ineluttabile destino che li attende.

Andy Garcia è Jimmy il Santo, un ex gangster che ha lasciato la malavita, ed ora gestisce un’impresa che permette ai malati terminali di filmare i propri messaggi di addio, se desiderano lasciare una testimonianza di se stessi ai familiari, prima di morire. Le cose non vanno benissimo, e il passato torna a bussare alla sua porta, nella persona di uno spietato boss, paralizzato su una sedia a rotelle (splendidamente interpretato da Christopher Walken), ma non per questo meno pericoloso: questi gli affida un lavoretto da dilettanti, ma per lui di vitale importanza, e Jimmy non può rifiutare.

Così riorganizza la vecchia squadra di ex galeotti, un gruppo di patetici incapaci, con svariati problemi di salute, non solo fisica, che purtroppo non riescono a portare a termine il compito, ma mandano tutto all’aria nel modo peggiore. Naturalmente il boss pretenderà che chi ha sbagliato paghi, nel modo più doloroso possibile. Il film è a metà strada tra thriller, gangster movie e commedia nera, e il suo punto di forza è la classe con cui tutto si muove: attori, dialoghi, azione, ogni inquadratura e ogni frase sono studiati con stile ed eleganza. I due protagonisti principali, Garcia e Walken, si muovono come in una coreografia, dove ogni gesto e ogni parola è al posto giusto e al momento giusto, ma quello che rende interessante il film sono i ruoli secondari, scritti con intelligenza e delicatezza, e molto ben interpretati da un gruppo di bravissimi caratteristi.

Molti di loro hanno solo poche scene per mettersi in mostra, eppure la sceneggiatura riesce a inquadrarne la personalità in maniera mirabile, al punto che lo spettatore si sente coinvolto nelle loro storie pur ignorandone i retroscena. Difficile dimenticare il lebbroso di Christopher Lloyd, una mezza tacca di delinquente a cui cadono le dita per via della cattiva circolazione, o lo psicopatico di Treat Williams, che usa i cadaveri delle pompe funebri come sacchi da boxe, e ancora Steve Buscemi, che pur sacrificato nei tempi e nei dialoghi, riesce comunque a lasciare il segno della sua presenza.  Senza tralasciare William Forsythe e Gabrielle Anwar, volti abbastanza noti sia pure per ruoli minori, ma proprio in questo si vede la loro grandezza.

Su tutti si erge Walken che, pur costretto sulla sedia a rotelle e immobilizzato dal collo in giù, dipinge in modo eccellente un boss crudele e deplorevole, deciso a portare a termine la sua vendetta nel modo più spietato, pur essendo ben consapevole della sua inutilità. Andy Garcia dirige il gruppo di sfortunati inetti, muovendosi con classe, alla ricerca di una salvezza che sa impossibile, e affrontando il destino con la silenziosa consapevolezza di non poter fare altro che pagare insieme a loro la colpa di averli scelti.

La sceneggiatura punta molto sulla rapidità dei dialoghi, un continuo botta e risposta che accresce il ritmo dell’azione ed evita momenti di stanchezza con la sua vivacità, anche grazie ad un umorismo incisivo e mai banale che infarcisce tutta la vicenda, riuscendo a rendere tollerabili anche le scene più crude. Una black comedy, dunque, ma con la classe di un noir, in alcuni momenti quasi opprimente, eppure poetico nel suo epilogo.
Molto si deve agli attori, che riescono a rendere i loro personaggi simpatici, qualunque cosa facciano, e riescono a coinvolgere lo spettatore mentre affrontano il loro destino. Ma grande è anche il contributo della regia che si mette al loro servizio, sfruttandone le potenzialità, coadiuvata da una fotografia molto curata e un ottimo montaggio.

All’epoca molti vollero vedere in questo film una brutta copia di Pulp Fiction, o per lo meno un’imitazione. Personalmente non credo sia vero. Fleder non è Tarantino, ma non cerca neppure di esserlo: i suoi criminali da strapazzo in fondo sono molto più umani e veri di quelli in giacca e cravatta di Tarantino, e lui mostra di avere un suo stile ben definito che non imita, ma crea con eleganza, ironia e un tocco di sublime poesia. Così i suoi personaggi entrano nella leggenda, attraverso il narratore che racconta la loro storia, e finiscono per sopravvivere al destino, sia pure in una dimensione irreale in cui riescono a sconfiggere la morte e a raggiungere l’immortalità.
E quello che il film ci lascia, alla fine, è un senso di malinconica vittoria.

Complimenti a una nuova amica cinziablackgore, traitaliaefinlandia, Matilde di cucinandopoesie, e GianniD del blog taqamkuk che hanno indovinato.

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Autore: Raffa

Appassionata di cinema e di tutte le cose belle della vita. Scrivo recensioni senza prendermi troppo sul serio, ma soprattutto cerco di trasmettere emozioni.

17 pensieri riguardo “Cosa fare a Denver quando sei morto (1995)”

        1. Beh la morte è la protagonista non accreditata, ma se ti piace l’humor nero c’è anche da ridere. E poi è poetico, non è splatter come Tarantino

          "Mi piace"

  1. Il film è in effetti piuttosto spietato, ma non somiglia per niente a quelli di Tarantino. Ricordo che lo guardai quando lo passarono in tv e mi è piaciuto abbastanza. Christopher Walken però all’epoca mi faceva un’ pressione…era proprio la sua faccia che mi faceva accapponare la pelle e devo dire che in quel ruolo è stato perfetto. Era anche il periodo d’oro di Andy Garcia, per cui all’epoca avevo una cottarella, il film l’ho guardato soprattutto per quello…grazie per i complementi, è stato un piacere partecipare!😊👍

    Piace a 1 persona

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