Stanley Kubrick, genio, sregolatezza e pignoleria

1928 – 1999

Se è vero che un romanziere scrive sempre lo stesso libro, e un regista insegue sempre la stessa idea, Stanley Kubrick è l’eccezione che conferma la regola. Ogni suo film è un prodotto a sé, e l’unico filo conduttore, che in qualche modo ricollega le sue opere, è quello dell’anticipazione storica. Molti dei suoi film non sono altro che una riflessione su un agghiacciante futuro, molto più vicino di quanto lui stesso potesse immaginare.

Cineasta filosofo, sperimentatore infaticabile di nuove tecnologie, inventore di nuovi modelli narrativi, sempre in equilibrio fra la ricerca d’avanguardia e le forme spettacolari, Kubrick è stato uno degli ultimi registi a farsi portatore di una concezione del cinema come veicolo di pensiero. Tutta la sua opera può essere letta come una riflessione storico-culturale sul mondo occidentale, realizzata attraverso storie esasperate e metaforiche, nelle quali vengono in luce le contraddizioni dell’uomo contemporaneo.

Nato nel Bronx, il 26 luglio 1928, da una famiglia borghese modesta, frequentò le scuole a New York, diplomandosi alla High School nel 1945; appassionato di fotografia fin dall’infanzia, giovanissimo iniziò a collaborare con la rivista Look, che abbandonò nel 1950 per dedicarsi interamente all’attività cinematografica. Dopo essersi finanziato i primi lavori, nel 1955 fondò, insieme a J. Harris, una società di produzione cinematografica, che si sarebbe sciolta nel 1962.

In Orizzonti di gloria (1957), Kubrick elabora la sua prima grande requisitoria contro l’Occidente: denuncia con amaro sarcasmo l’ipocrisia e il cinismo del potere e il comportamento tribale degli uomini. L’assalto disperato e inutile scatenato da un generale ambizioso e irresponsabile contro un’imbattibile postazione tedesca, si risolve in un orrendo massacro cui fa seguito la fucilazione di tre soldati scelti a caso, per punire il fallimento dell’impresa. L’esecuzione assume l’aspetto di un grande spettacolo come a sottolineare che non c’è niente di più confortante per l’uomo occidentale che vedere morire i propri simili.

Anche il successivo Spartacus (1960) mostra come la guerra sia spettacolo più che azione. La scena della battaglia, che contrappone la geometria fredda e impersonale delle legioni romane all’anarchia fantasiosa e disperata degli schiavi ribelli, descrive la ribellione contro l’ordine costituito, la lotta della libertà contro l’obbedienza. Dopo questo film si trasferì a Londra, dove condusse una vita appartata ma sempre attentissima agli eventi storici e culturali, che gli permise di illustrare con grande sarcasmo i paradossi e le contraddizioni della cultura occidentale.

Partendo da romanzi o racconti, spesso di autori famosi come Nabokov, Clarke o King, Kubrick costruisce sempre un doppio livello di rappresentazione, uno spettacolo nello spettacolo: elabora grandi messe in scena per esaminarle poi con atteggiamento distaccato, come un narratore che non partecipa alla storia né alla vita dei personaggi ma li studia, offrendoli allo spettatore con la freddezza dello scienziato.

Le contraddizioni della classe colta sono il tema di Lolita (1962) in cui il professor Humbert, innamorato della sua figlioccia, incarna l’ipocrisia degli intellettuali. Anche Humbert ha un doppio nella figura del perfido scrittore Quilty che lo perseguita, non per liberare la ragazza dalle grinfie del patrigno, ma esclusivamente per sedurla a sua volta. Se Humbert è lo studioso impegnato a conservare la patina di perbenismo per nascondere le sue prevaricazioni, Quilty è l’artista in apparenza anticonformista, ma in effetti posseduto dalla stessa libidine.

Nel film successivo, Il dottor Stranamore (1964), la guerra è solo un’occasione per mostrare le isterie di un generale statunitense e l’infantilismo dei politici, e per contrapporre loro la più acuta parodia della scienza che il cinema abbia mai conosciuto. La giostra dei contrari continua con quello che è stato spesso considerato il suo capolavoro, 2001: Odissea nello spazio (1968) dove il conflitto fra l’uomo e la macchina produce uno scambio d’identità e, mentre il computer HAL 9000 con la sua rivolta fallita assume alla fine quasi un volto umano, lo sguardo dell’astronauta David Bowman appare sempre più freddo e assente. Famosi sono i tempi lunghissimi del balletto delle astronavi e il pezzo di autentico cinema sperimentale inserito nella parte finale per descrivere l’arrivo sul pianeta sconosciuto: anche qui il regista coniuga il grande spettacolo e la ricerca fotografica, con la riflessione filosofica sulla storia dell’uomo.

In Arancia meccanica (1971) Kubrick elabora una selvaggia parodia del futuro, ancora una volta metafora del presente. Il film, che colpì l’opinione pubblica e sollevò il polverone dei dibattiti sociali, è l’esempio più significativo di quella anticipazione storica caratteristica della sua filmografia: anticipava, infatti, ciò che viviamo oggi nelle nostre città, disegnava un futuro che ora ci ha raggiunti. La sadica stravaganza del protagonista nelle sue mascherate, gli stupri e le risse, e infine il potere falsamente democratico che si sostituisce alla violenza. La storia del crudele Alex, che da picchiatore diventa uno strumento politico importante nelle mani del governo, offre al regista l’occasione di illustrare come il bene e il male si scambino continuamente di posto, a seconda dei punti di vista, ma anche di sperimentare un tipo di narrazione simmetrica, a ‘stazioni’, in cui la seconda parte è costituita dalle stesse tappe della prima in ordine inverso.

Nel successivo Barry Lyndon (1975), la ricostruzione del Settecento inglese, con una messa in scena che non ha precedenti né susseguenti nella storia del cinema, raggiunge i vertici del cinema in costume, con eleganza e bellezza incomparabili. Il protagonista Redmond Barry è uno scalatore sociale volgare e prepotente che sposa una gentildonna, lady Lyndon, infiltrandosi così nell’ambiente decadente dell’aristocrazia inglese; tuttavia possiede una sua interiore grandezza, una profonda malinconia e un coraggio sconosciuto ad altri che ne fanno, se non un eroe, almeno l’ombra di un eroe, mentre la nobiltà che lo circonda appare sempre più ridicola e addirittura vile nella superbia dei suoi privilegi. La narrazione è lasciata alla voce fuori campo di un narratore invisibile, che assolve anche il compito di collocare lo spettatore a una distanza siderale dalla scena.

In Shining (1980), il regista offre un altro curioso esemplare di uomo occidentale: lo scrittore preso da un delirio di onnipotenza. La paranoia di Jack Torrance, che cerca di uccidere la moglie e il figlio per divenire immortale, non rappresenta solo la pazzia di un mediocre scrittore fallito, ma anche l’aspirazione di una civiltà esaltata che cerca di superare ancora una volta i confini dell’umano. Lo stesso si può dire della grande macchina da guerra descritta in Full Metal Jacket (1987), in cui dietro l’uso delle armi più potenti e del napalm si manifestano l’impotenza e l’infantilismo inaudito dei marines americani che, come grande impresa di guerra, riescono solo a uccidere una donna e poi sfilano tra le fiamme cantando la canzone di Mickey Mouse.

Nel suo ultimo capolavoro incompiuto, Eyes wide shut (1999), Kubrick consegna agli spettatori un misterioso apologo sul regno delle immagini. Trasforma New York in una metafora del Novecento e un grande baraccone teatrale, emblema della società dello spettacolo. Tutto è vero e nello stesso tempo tutto è falso, i sogni contengono più verità della realtà quotidiana ma tutte le situazioni si rovesciano nel passaggio dalla notte al giorno. Lo stolto protagonista Bill, che attraversa la città di notte e poi ripercorre le stesse tappe alla luce del giorno, nella ricerca inutile di quello che ha o crede di avere visto, è ancora una volta emblema dell’uomo occidentale che quanto più spalanca gli occhi per vedere il mondo, tanto meno vede o riesce a capire quello che gli accade.

Nonostante le decine di candidature a Oscar e Golden Globe, vinse la statuetta solo per gli effetti speciali di 2001: Odissea nello spazio e il Leone d’oro alla carriera, nel 1997, a Venezia.

Nel 1948 aveva sposato la fidanzata Toba Metz, conosciuta al liceo, ma i due divorziarono nel 1951. Nel 1955 sposò la ballerina Ruth Sobotka, dopo aver convissuto per tre anni; la coppia divorziò poi nel 1958. Sul set del film Orizzonti di gloria conobbe poi l’attrice Christiane Harlan, che sposò nel 1958 e con cui rimase fino alla morte. I due hanno avuto due figlie: Anya, morta di cancro nel 2009, e Vivian.

Kubrick morì nel sonno, stroncato da un infarto, nella sua casa di campagna, il 7 marzo 1999, all’età di 70 anni. I funerali si svolsero in forma riservata e laica, rispettando quella ritrosia dal mondo esterno che aveva caratterizzato l’ultima parte della sua vita. In base alle sue ultime volontà, il corpo è stato sepolto nel giardino della casa stessa a Childwickbury, nell’Hertfordshire.

«L’uomo è irrazionale, brutale, debole, sciocco, incapace di essere obiettivo verso qualunque cosa che coinvolga i propri interessi. Sono interessato alla brutale e violenta natura dell’uomo perché è una sua vera rappresentazione»

FONTI: Enciclopedia del cinema, Treccani – wikipedia


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Autore: Raffa

Appassionata di cinema e di tutte le cose belle della vita. Scrivo recensioni senza prendermi troppo sul serio, ma soprattutto cerco di trasmettere emozioni.

14 pensieri riguardo “Stanley Kubrick, genio, sregolatezza e pignoleria”

  1. Non sono sicura di aver visto Orizzonti di gloria e/o Spartacus, ma dopo sono diventata una sua grande fan, con
    Lolita
    Il dottor Stranamore – Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba,
    2001: Odissea nello spazio,
    Arancia meccanica,
    Barry Lyndon
    (Shining no!),
    Full Metal Jacket e…,
    mi dispiace, ma assolutamente da buttare Eyes Wide Shut (finito di girare quando lui era bello che schiattato e dopo aver letto il libro “Doppio sogno”, non se ne parla proprio, almeno per me).
    In ogni caso, rientra (insieme ad Altman) tra i miei registi preferiti, seppur in posizione finale 🙂

    Piace a 2 people

  2. Stanley Kubrick era un architetto di mondi.
    Ogni suo film sembra un pianeta, con leggi, ritmo e respiro propri.
    Era ossessivo, maniacale nel dettaglio, ma questa ossessione era la sua forma di purezza. Non gli bastava raccontare una storia: voleva che lo spettatore vi si smarrisse dentro, che respirasse la stessa aria dei personaggi.
    Guardarlo significa sentirsi piccoli davanti a un genio che non dava sconti, né a sé stesso né allo spettatore.
    Il suo cinema non accarezza, mette a disagio.
    Ma proprio lì, nell’inquietudine, ci regala la sua grandezza: perché Kubrick non faceva film da guardare, faceva esperienze da attraversare.

    Piace a 1 persona

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