Joseph L. Mankiewicz, l’arte della parola

1909 –

Regista, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense, nato a Wilkes-Barre, in Pennsylvania l’11 febbraio 1909. Considerato una tra le personalità più importanti del periodo d’oro di Hollywood, attraversò il cinema statunitense dalla fine degli anni ‘20 all’inizio degli anni ‘70 come sceneggiatore, produttore e regista. Si è cimentato negli anni in tutti i generi classici, dall’horror gotico al fantastico, dal peplum al musical, dal noir alla commedia, dallo spionaggio al western, senza mai cercare di farne qualcosa di nuovo o di diverso, ma rispettando sempre i canoni di ogni genere.

Carattere difficile, fu spesso in contrasto con produttori, registi, attori e scrittori. Nei suoi film, il teatro è un punto di riferimento costante, poiché attribuiva maggiore importanza alla parola rispetto all’immagine, all’introspezione psicologica dei personaggi piuttosto che all’azione. Spesso nelle sue opere c’è un’esasperazione degli elementi melodrammatici, come l’utilizzo della voce fuori campo, che moltiplica i punti di vista, e la presenza del flashback. Eppure, anche nel suo cinema, lo spazio scenografico, utilizzato quasi come un infinito palcoscenico, ha enorme importanza ed è sempre curato nei dettagli, caratterizzato in special modo da specchi e scale, che moltiplicano i piani dell’azione e ampliano la scena.

Figlio di un emigrato tedesco, professore universitario al New York City College, e fratello dello sceneggiatore Herman, si orientò verso gli studi umanistici. Lasciò poi gli Stati Uniti per trasferirsi a Berlino come corrispondente per il Chicago tribune e lavorò per la casa di produzione tedesca UFA come traduttore delle didascalie per i film destinati al mercato statunitense. Grazie al fratello Herman, nel frattempo diventato sceneggiatore alla Paramount, tornò in patria nel 1929 e riuscì a farsi assumere dalla casa di produzione, per cui intraprese anche l’attività di sceneggiatore: in quel periodo scrisse, tra gli altri, Skippy, nel 1931, per il quale ottenne la sua prima nomination all’Oscar per la migliore sceneggiatura, e Nostro pane quotidiano, nel 1934, di King Vidor.

Nel 1934 passò alla Metro Goldwyn Mayer per la quale lavorò come sceneggiatore, ma alla richiesta di poter dirigere le opere che scriveva, Mayer rispose negativamente, destinandolo invece alla produzione. Dal 1936 al 1943 produsse, per la MGM circa 19 film, finché divergenze insanabili con Mayer lo spinsero a interrompere il rapporto di lavoro con la MGM. Passato alla 20th Century-Fox ottenne un contratto come sceneggiatore e produttore e la promessa di poter esordire dietro la macchina da presa.

Ebbe finalmente l’occasione di esordire nella regia, dopo la rinuncia di Lubitsch, nel 1946 con Il castello di Dragonwyck, un horror dalle atmosfere gotiche, con Vincent Price. Sempre nel 1946 diresse poi il noir Il bandito senza nome e, l’anno dopo, la commedia Schiavo del passato, e Il fantasma e la signora Muir che è una delle sue opere più significative: sospesa tra le atmosfere del fantastico e del gotico, è caratterizzata da una particolare attenzione per gli elementi di arredamento e per l’illuminazione, calibrata in modo da accentuare gli effetti di apparizione e sparizione del fantasma e presentare le ombre quasi in chiave espressionista.

Nel successivo Lettera a tre mogli, del 1949, con cui tornò a occuparsi anche della sceneggiatura, la voce fuori campo di una narratrice, mai visibile per tutta la durata del film, costituisce il motore della vicenda, e con il procedere del racconto consente l’apertura di flashback sulla vita privata delle protagoniste. Il film ottenne un enorme successo: era un acido ritratto della borghesia della provincia statunitense, ricco anche di tocchi da commedia sofisticata degni di Lubitsch.

Nel 1950 realizzò Eva contro Eva, in cui c’è il cuore del cinema di Mankiewicz. La storia è raccontata quasi per intero al passato, da tre voci narranti che ripercorrono la vicenda attraverso sette flashback. Il tema dell’inganno, la presenza di personaggi manipolatori, l’insistenza sugli oggetti (in particolare gli specchi) e l’ambientazione prevalente in interni claustrofobici sono gli elementi portanti di questo cinico ritratto dell’universo teatrale, dietro cui si nasconde un feroce attacco al mondo del cinema.

Dopo La gente mormora, del 1951, e il film di spionaggio Operazione Cicero, nel 1953, Mankiewicz dirige Giulio Cesare, con Marlon Brando e James Mason, apparentemente un peplum tratto dalla tragedia di Shakespeare, ma in realtà un avvincente melodramma. Dopo questo film, lascia la 20th Century-Fox, e fonda una propria casa di produzione, la Figaro Incorporated Productions, con cui realizzò nel 1954 La contessa scalza, con Ava Gardner e Humphrey Bogart, una pellicola strutturata attraverso otto flashback narrati da quattro personaggi diversi, che offre un ritratto ancora più diretto e amaro del mondo del cinema. E’ probabilmente l’opera in cui più tentò di distaccarsi da ogni forma di realismo, per orientarsi verso una fiaba dal respiro malinconico e struggente.

Diresse poi il musical Bulli e pupe, nel 1955, per il quale si avvalse delle coreografie di Michael Kidd e riuscì a far ballare e cantare Marlon Brando; nel 1958 girò invece Un americano tranquillo, dal romanzo di Graham Greene, per portare infine sullo schermo il dramma omonimo di Tennessee Williams Improvvisamente, l’estate scorsa. Nel film, incentrato sull’ossessione di una ricca vedova scossa per la morte del figlio e disposta a far lobotomizzare la nipote pur di impedirle di ricordare le circostanze della morte del giovane, Mankiewicz si servì ancora del flashback per recuperare la verità sull’accaduto e le implicazioni profonde nascoste nella vicenda.

La lavorazione fu ostacolata dai problemi sorti sul set con Montgomery Clift e Katharine Hepburn, mentre il regista era ancora scosso dal suicidio della sua seconda moglie, avvenuto qualche mese prima delle riprese. Fu poi chiamato a Cinecittà, per sostituire il regista sul set di Cleopatra, con Liz Taylor, opera dalla gestazione tormentata che causò la rovina economica della 20th Century-Fox.

Ultimi film da ricordare, sono Masquerade, del 1967, un film sulla potenza dell’illusionismo scenico, in cui appare definitivamente frantumata la differenza tra palcoscenico teatrale e set cinematografico; il western Uomini e cobra, del 1970, con Henry Fonda e Kirk Douglas, e infine, nel 1972, Gli insospettabili, con Laurence Olivier e Michael Caine, ancora sul teatro e sul mascheramento dell’identità.

Nella sua lunga carriera vinse l’Oscar per la regia e la sceneggiatura per due anni consecutivi, nel 1950, con il film Lettera a tre mogli, e l’anno dopo con Eva contro Eva. Per quest’ultimo film, vinse anche il Golden Globe per la sceneggiatura e si aggiudicò il premio speciale della giuria al Festival di Cannes.  Nel 1987 la Mostra di Venezia gli assegna il Leone d’Oro alla carriera.
Sposato tre volte, ha avuto tre figli, Christopher, produttore e attore, Tom, sceneggiatore e regista, ed Eric. Si è ritirato dal cinema dopo Gli insospettabili, nel 1972. E’ scomparso il 5 febbraio 1993, a 84 anni.

«La differenza tra i film e la vita reale è che una sceneggiatura deve avere senso, mentre la vita spesso non ne ha»

FONTE: Enciclopedia del cinema, Treccani


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Autore: Raffa

Appassionata di cinema e di tutte le cose belle della vita. Scrivo recensioni senza prendermi troppo sul serio, ma soprattutto cerco di trasmettere emozioni.

56 pensieri riguardo “Joseph L. Mankiewicz, l’arte della parola”

            1. Te l’ho detto di mia figlia, che aveva il foglio della farmacia ma non il green pass sul cell, perché non era arrivato, e non l’hanno fatta entrare al cinema… Ma penso che al lavoro ti facciano entrare, meglio se avvisi però.

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  1. Mi ha sempre incuriosito il fatto che, nel secolo/decenni scorsi, attori e registi firmassero contratti con le case cinematografiche così come oggi i calciatori firmano con i club: contratti pluriennali con compenso pattuito.
    Non credo (correggimi se mi sbaglio) che oggi questo accada più, dato che il casting viene fatto per ogni film, compresa la scelta del regista. Forse nel caso di trilogie è “ovvio” che regista ed attori rimangano ovviamente gli stessi, ma il fatto di legarsi contrattualmente credo avvenisse solo molti anni fa.

    Piace a 1 persona

    1. E’ vero, anche perché oggi molti registi producono in proprio, e quindi hanno più libertà di scelta. Lo stesso vale per gli attori, che non si legano quasi più alle case di produzione, ma vengono ingaggiati per i singoli film, e se sono già famosi, hanno grande libertà di scelta nel decidere quali film interpretare e quali rifiutare. Il produttore diventa importante e necessario quando il regista non ha molti fondi e non può produrre in proprio.

      Piace a 2 people

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