Film apertamente contro l’uso delle armi da fuoco, prende spunto dall’anniversario della strage compiuta da uno studente nella sua scuola, e analizza le diverse conseguenze di quel fatto tragico: dalla famiglia dell’omicida, che fatica a sopportare il disprezzo dei concittadini e a rifarsi una vita, al poliziotto accorso per primo sul luogo della strage, che non riesce a giustificare la propria impotenza e si sente schiacciato dai sensi di colpa.
È bene chiarire che si tratta di una storia di fantasia, niente a che vedere con i tanti film che hanno cercato di ricostruire fatti di cronaca, come la strage del liceo Columbine. Ma è ovvio che il riferimento a quei tragici fatti è dolorosamente implicito, e nella costruzione della vicenda il regista non trascura nessuno dei protagonisti, delineando ritratti psicologici molto accurati.
La madre dello studente, interpretata da un’intensa Marcia Gay Harden, non si capacita di quello che è successo, ed è convinta di non avere colpe per quello che il figlio ha fatto, ma non riesce a farlo accettare ai vicini, che invece la considerano una pessima madre. Nello stesso tempo è preoccupata per il figlio minore, perché non riesce a liberarlo dall’ingombrante ombra del fratello, e teme che possa imitarlo.

Tony Goldwyn (qui meno incisivo di altre volte) è il poliziotto che per primo è accorso al liceo il giorno della strage. Perseguitato dal ricordo dei ragazzi morti, continua a chiedersi cosa avrebbe potuto fare. Accusato in televisione dal padre di una delle vittime di non aver fatto abbastanza, continua a negare ogni responsabilità, ma intimamente non si sente in pace con la propria coscienza.

Nella trama si inserisce la storia di un preside che lotta per tenere la propria scuola libera da armi e violenze di ogni genere, e quella di un suo studente che sente la necessità di avere un’arma per proteggersi dai pericoli del quartiere in cui vive. Nel ruolo del preside Forest Whitaker, incisivo come sempre, raggiunge una particolare sensibilità espressiva nel ruolo di marito e padre, tra le pareti domestiche.
Sullo sfondo della vicenda, un piccolo negozio di armi in cui gli occasionali clienti acquistano pistole e fucili giudicandone comodità ed eleganza, come fossero capi di abbigliamento, mentre il proprietario considera la sua attività commerciale al pari di qualunque altra, senza preoccuparsi di quello che succede fuori dal suo negozio, e non ponendosi minimamente il problema della propria responsabilità.

Donald Sutherland, relegato per una volta in un ruolo minore, è l’anziano proprietario dell’armeria; lo affianca la giovane nipote (Linda Cardellini) che inizialmente si impegna ad aiutare il nonno solo per partecipare all’attività commerciale di famiglia, ma dopo essere stata vittima di un’aggressione, inizia a subire il fascino delle armi come forma di difesa personale.
Il film si conclude con un banale ma tragico atto di violenza, in cui un’arma è ancora una volta protagonista assoluta, e ci dimostra quanto sia facile e assurdo spezzare una vita umana, senza nemmeno un perché.

L’idea di partenza era buona, perché di solito quando si parla di stragi nelle scuole, si cerca di analizzare le motivazioni che hanno portato al massacro, mentre American gun si propone di esaminare le conseguenze psicologiche e sociali della violenza, non tanto sulle vittime, quanto sui testimoni e i soccorritori, sulla famiglia dell’omicida e sull’intera comunità.
Interessante anche la coesistenza di tanti punti di vista diversi, tutti presentati dal regista come validi: dal preside che, giustamente, non vuole armi all’interno della sua scuola, allo studente che ogni giorno deve affrontare i pericoli dei quartieri malfamati e sente la necessità di proteggersi. Fino all’armaiolo, che vende le sue armi come fossero normali oggetti di uso quotidiano. Non ultima la giovane nipote che si avvicina alle armi come ultimo baluardo di difesa.

È un film sul “dopo”, non sul “prima”, e non a caso parte dalla commemorazione dell’eccidio, a distanza di tre anni dai fatti. Quello che interessa al regista è mostrare le ripercussioni, anche indirette e non immediate, dell’uso di un’arma, e in questo senso riesce abilmente a fondere le varie storie per far riflettere lo spettatore. Tuttavia, nonostante voglia evidentemente realizzare un film di denuncia, rimane sempre in superficie, mettendo forse troppa carne al fuoco, senza approfondire nessuna delle tante tematiche proposte.
E anche il finale, pur nella sua drammaticità, sembra incompiuto e non riesce a coinvolgere come dovrebbe. Peccato per gli attori che ce l’hanno messa davvero tutta, ma il risultato non lascia il segno. In un piccolo ruolo anche una giovanissima Amanda Seyfried, ma su tutti si elevano la Harden nel ruolo della madre e Whitaker in quello del preside.
Rimane comunque un buon film, che fa riflettere su una realtà per fortuna abbastanza lontana da noi, ma che potrebbe diventare un giorno tragicamente attuale.
Trailer originale
confesso che lo ricordo poco, forse perchè non mi ha lasciato un gran segno, e trovo molto appropriata la tua recensione, ricordo con piacere la figura del preside forse perchè Forest Whitaker mi piace molto come attore, certo un film da vedere per entrare dentro a tematiche che spesso nei film sulle “armi-” vengono dimenticate! brava come sempre!! buona giornata
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Anche a me piace molto Whitaker, è un interprete molto sensibile. Buona giornata anche a te!
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speriamo forse oggi spunta il sole!
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Anche qui!
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meno male!
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Interessante anche se non credo lo guarderò mai
Tema interessante però, soprattutto per la scelta di mostrare il dopp
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Un punto di vista diverso, e il film è interpretato benissimo. Solo, come ho detto, non dà risposte, affronta tante questioni senza risolverne nessuna.
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Buon giorno + Armiamoci di buona pazienza
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Ce ne vuole tantissima, ovunque. C’è gente che protesta anche per le cavolate…
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Soprattutto per le cavolate.
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Pensa che abbiamo scoperto oggi che le bidelle non puliscono i banchi… Hanno detto che loro devono solo spazzare per terra, ma la disinfezione dei banchi tocca a noi. Il mio collega si è incavolato, dicendo che lui è pagato per insegnare, non per pulire. Alla fine per mettere pace, ho detto che i banchi li disinfetto io, nella nostra aula. Le altre… chi lo sa?
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Non si chiamano più bidelle da almeno un ventennio.
Hanno un potere immenso, e compiti ben precisi, se incontri quelle sbagliate è guerra.
Sai che ho fatto il rappresentante sia di classe d’istituto dalle elementari alle superiori, ne ho viste e sentite da non crederci.
Per le pulizie ci sono le ditte di pulizie.
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Lo so, ma il protocollo della disinfezione per il covid prevede che i banchi siano disinfettati alla fine delle lezioni, noi pensavamo che lo facessero, le bidelle o chi per loro (non credo che nelle scuole vengano chiamate ditte di pulizie, visti i pochi soldi che ci sono). Invece è venuto fuori che loro si limitano a spazzare i pavimenti, neanche a lavarli. Ma i banchi, dicono loro, non sono di loro competenza. Io posso capire la linea di principio, ma sarà più importante la sicurezza dei bambini, o no?
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Lo dovrebbero fare le bidelle in cambio di denaro, funziona così.
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Amen. Io sono pratica: a me non costa molto pulire una decina di banchi, il disinfettante lo dà la scuola. Va fatto e lo faccio. Dico solo che potevano dirlo prima.
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Pazienza e si va avanti
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