Vittorio Gassman, il Mattatore

Il soprannome gli rimase incollato a vita, e lui non fece nulla per toglierselo di dosso. Considerato uno dei più grandi attori del cinema italiano, fu il Signore delle Scene fin da giovanissimo. Nessuno fu come lui prima di lui, e per diventarlo percorse una strada lunghissima.

Nasce a Genova, il primo settembre 1922. Figlio di un ingegnere tedesco e di una casalinga italiana che aveva avuto esperienze giovanili di recitazione, quando ha 5 anni, la famiglia si trasferisce nel paesino di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, a causa del lavoro paterno. Studia al liceo classico e si appassiona alla pallacanestro. Si iscrive a giurisprudenza, ma la madre sentiva che non era la carriera giusta per lui, così ne chiese l’ammissione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, spingendolo a lasciare gli studi legali.

Nel frattempo, continuò a coltivare il fisico da atleta entrando in una squadra di pallacanestro. L’ascesa nel mondo del basket non regalerà scudetti a Gassman, ma la convocazione in Nazionale, prima quella universitaria e poi quella maggiore, ahimè troncata dagli eventi bellici della seconda guerra mondiale. I primi veri successi arrivarono con il teatro, ma tra la fine degli anni ‘40 e il decennio successivo, incarnò sulle scene un fenomeno di divismo che non ebbe confronti.

Nel 1943, appena diplomato all’Accademia fu subito scritturato in diverse compagnie teatrali, recitando prima in testi brillanti con Tino Carraro ed Ernesto Calindri, poi più seri con Tino Buazzelli. In questo periodo ci fu l’incontro con Luchino Visconti che ne intuì il potenziale drammatico, offrendogli di recitare in opere di Shakespeare, fino al ruolo decisivo per la sua carriera, quello di Stanley Kowalski nel dramma di Tennessee Williams Un tram che si chiama desiderio.

Fu un trionfo, a cui seguirono drammi di autori classici, da Eschilo a Ibsen, e tutta una galleria di personaggi che lui interpretò con il proprio personalissimo tocco: Amleto, Otello, Iago, Oreste, Edipo, tutte figure che in quel giro di anni continuò a replicare sui palcoscenici con successo mai incrinato e stile inconfondibile.

Il cinema, fino a quel momento, non era rimasto estraneo alla seduzione di questo straordinario primattore, ma gli aveva riservato ruoli di spiccato romanticismo, come in Daniele Cortis (1947) di Mario Soldati e La figlia del capitano (1947) di Mario Camerini, o losche figure d’antagonista votate al male. In quest’ultimo senso, Gassman offrì il meglio di sé in Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis dove, al fianco di una Silvana Mangano travolgente di sensualità, diede vita a un’immagine di canaglia dal fascino irresistibile, segnalandosi come qualcosa di molto diverso dalle tipologie piccolo-borghesi o sentimentali che i protagonisti maschili del tempo disegnavano al cinema.

Complice il matrimonio con Shelley Winters (in cui i maligni videro una manovra per arrivare ad Hollywood), ci furono le trasferte americane, quasi tutte cocenti delusioni che rischiarono di distruggergli la carriera. A contratto con la MGM, interpretò in due anni quattro film, uno peggio dell’altro: Il muro di vetro e Sombrero, nel 1953, poi Mambo e Rapsodia nel 1954, per la regia di King Vidor, che lo richiamò due anni dopo per Guerra e pace. Ma Gassman non ne poteva già più, divorziò dalla Winters e tornò in Italia.

Fu allora, quando stava pensando di abbandonare il cinema, che Mario Monicelli intuì le possibilità comiche nascoste in quel veemente strangolatore di Desdemone, e gli offrì un ruolo inedito: Peppe, un pugile decisamente suonato, nel suo capolavoro I soliti ignoti (1958). Il pubblico e la critica scoprirono improvvisamente un nuovo Gassman: comico, magicamente perfetto per il grande schermo. Ottenne il Nastro d’Argento come miglior attore protagonista e, d’improvviso, gli anni ‘60 gli aprirono una nuova gratificante strada da percorrere proprio sulla scia di quel successo.

Monicelli continuò a dirigerlo in un altro capolavoro del nostro cinema: La grande guerra (1959). Nacque il Gassman nazionalpopolare. Il pubblico che fino ad allora aveva riso con Totò, ora rideva con lui. Quel suo Giovanni Busacca, un cialtrone milanese, ex carcerato, un italiano comicamente codardo, che muore da eroe malgrado sé stesso, superò ogni aspettativa. Non mancò qualche critico che storceva il naso, accusandolo di non trovare il ritmo comico giusto. Ma lui se ne curò poco e andò avanti per la sua strada. Poi arrivò la punta di diamante della sua carriera. Il terzo capolavoro: Il sorpasso (1962).

L’antipatico rampante Bruno Cortona, figlio del boom economico, gli lasciò in eredità l’immagine dello sbruffone, dell’arrivista, del cialtrone smanioso di facile successo. Il tipico italiano medio. E in quel geniale e afoso titolo on the road, nacque la sua maschera perenne. Quella del furbetto sopra le righe, dell’uomo dalla finta classe, portatore di un profondissimo mal costume nostrano. Come fosse un nuovo personaggio della Commedia dell’Arte, questo prototipo di seduttore, paga con la vita degli altri la propria opportunistica immoralità. Una performance che fu anche un’impietosa analisi di tutti quegli spacconi che popolavano la penisola. I suoi furono personaggi nei quali molti uomini di allora si specchiarono, ridendo, ma in fondo vergognandosi di se stessi. Forse per questo non è mai riuscito ad attirarsi molte simpatie maschili.

Dino Risi gli permetterà poi di sbizzarrirsi in più di un personaggio ne I mostri (1963) mentre Ettore Scola ne La congiuntura (1964) lo dirige nei panni di un infiammato principe romano nottambulo che viene sedotto e ingannato da una bella signora. Anche questa volta, per la sua interpretazione di eccezionale qualità, strappò un David di Donatello per il miglior attore protagonista. Nel 1966 trovò nel soldato di ventura Brancaleone da Norcia, una delle caratterizzazioni più indelebili della sua carriera.

L’armata Brancaleone riempì i cinema, tanto che si pensò che Gassman potesse dare il massimo al botteghino solo nei film in costume. Motivo che spinse Scola a richiamarlo sul set per interpretare L’arcidiavolo (1966). Ma un altro David di Donatello lo aspettava per quell’esuberanza debordante che mise al servizio de Il tigre (1967), dove interpreta l’ennesimo personaggio negativo, un padre di famiglia che perde la testa per una compagna di scuola del figlio.

Purtroppo, a seconda degli scombinati soggetti e delle sceneggiature troppo grottesche che gli venivano proposte, Gassman cominciò a diventare ripetitivo. Stesse identiche gag, stessi ipocriti personaggi, stessa satira di costume ormai consumata e che cominciava a galleggiare in un qualunquismo intollerabile. Riuscirà a prendere una boccata d’aria fresca ritornando paradossalmente indietro. A quel Brancaleone che impegnato nelle Crociate fu di nuovo al centro di una miscela di scoppiettante umorismo (Brancaleone alle Crociate, 1970, di Monicelli). Si iniziò a comprendere che, malgrado la fortuna al botteghino, certi film erano sostenuti esclusivamente dalla sua inimitabile passione d’attore.

Per questo motivo, Risi lo affiancò a Tognazzi nel profetico In nome del Popolo Italiano (1971), trasformandolo in un industriale corrotto. Anticipando l’Italia dei magistrati e di Tangentopoli, il suo personaggio convinse il pubblico e la critica e gli permise di approdare al ruvido protagonista di Profumo di donna (1974), che gli portò il premio come miglior attore a Cannes, un Nastro d’Argento e un David di Donatello. Non ci fu mai più un ruolo così maturo. La perfetta chiusura di una straordinaria carriera, che però continuò con altre significative interpretazioni, tra cui C’eravamo tanto amati (1974) e Il deserto dei Tartari (1976).

Ma Profumo di donna resta l’apice del suo successo. Più di così non poteva andare. E infatti, smise di correre, ma mal volentieri. Il cinema era cambiato, lui era cambiato. La vecchiaia lo deprimeva. Avrebbe voluto rimanere giovane, ma non poteva; lo salvò l’autoironia. Gli avevano detto “lei potrebbe leggere di tutto e farlo sembrare poesia”. Allora, nella sezione “Gassman legge” del programma satirico Tunnel, Gassman lesse veramente di tutto. Pagine Gialle, referti sulle analisi del sangue, etichette dei maglioni e ingredienti dei biscotti. Il risultato fu esilarante.

Ancora una volta si riconfermò un interprete dal carisma naturale: altisonante, enfatico, istrionico, ma anche beffardo e sottile. E ci fu ancora tempo per eleganti cameo, come il memorabile Carlo, patriarca de La famiglia (1987), il custode del cimitero in Mortacci (1988), il tangentaro agli arresti domiciliari di Tutti gli anni, una volta l’anno (1993) e il mafioso di classe in Sleepers (1996). Tra un ruolo e l’altro, trova il tempo per il doppiaggio del leone Mufasa, sovrano della giungla nel Re Leone (1994), e per un paio di spot in cui interpreta Nostradamus: in uno di questi lanciò il tormentone “Questo lo ignoro!”.

Sul finale, alla luce di uno strepitoso percorso artistico, venne celebrato a Venezia con un Leone d’Oro alla Carriera. Fu anche scrittore: dopo aver esordito con il romanzo Luca dei numeri (1965), pubblicò due volumi autobiografici, Un grande avvenire dietro le spalle (1981) e Memorie del sottoscala (1990), poi seguiti da altri tre libri, Ulisse e la balena bianca (1992), Mal di parola (1992) e Lettere d’amore sulla bellezza (1996). Fondatore e direttore (dal 1979 al 1991) della Bottega dell’Attore, una scuola di recitazione, ebbe fra gli allievi il figlio Alessandro.

“Il lavoro dell’attore – spiegava – è una specie di malattia che a volte si può anche insegnare”. L’ultimo ruolo lo interpretò sul palcoscenico della vita, con la tardiva consapevolezza di essere padre. Poco presente agli inizi e durante gran parte della sua esistenza, riuscì in vecchiaia a ricostruire un bellissimo rapporto con tutti i suoi figli, ormai diventati adulti. Ebbe una vita privata molto movimentata, caratterizzata da un’allergia alla fedeltà e da una naturale propensione per le avventure.

Tre le mogli ufficiali. La prima è stata la collega Nora Ricci. Poi, dopo una storiella con l’attrice Elvira Lissiak, sposa l’americana Shelley Winters, ma il matrimonio naufraga quasi subito, sia perché Gassman mal sopportava gli ambienti hollywoodiani, sia per i tradimenti con Anna Maria Ferrero. Dopo una relazione con l’attrice danese Annette Strøyberg e una storia importantissima con Juliette Mayniel, da cui nascerà il figlio Alessandro, si sposò una terza volta con Diletta D’Andrea.

Cinque i suoi figli. La prima figlia, nata dalle nozze celebrate con la Ricci nel 1943, fu Paola Gassman, affermata attrice di teatro recentemente scomparsa. Nel 1953, dalla burrascosa relazione con la Winters, nacque Vittoria Gassman, medico geriatra negli Stati Uniti. Poi Alessandro nel 1965, figlio della Mayniel, e dall’ultima moglie, nel 1980, nasce Jacopo, oggi regista. In più, adottò Emanuele Salce, figlio dell’ultima moglie e del regista Luciano Salce. Morì per un attacco cardiaco che lo colpì nel sonno, nella notte di giovedì 29 giugno 2000, all’età di 77 anni, in quella Roma che amò e visse come pochi altri.

«Non si dovrebbe morire.
La Morte è l’unico errore che ha fatto il Padreterno»

FONTI: mymovies – Enciclopedia del cinema, Treccani


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Autore: Raffa

Appassionata di cinema e di tutte le cose belle della vita. Scrivo recensioni senza prendermi troppo sul serio, ma soprattutto cerco di trasmettere emozioni.

22 pensieri riguardo “Vittorio Gassman, il Mattatore”

  1. Un grande!!! Personalmente mi piace come attore anche suo figlio Alessandro sicuramente da sempre più impegnato nelle fictions ma a mio dire, anche il figlio per me è una garanzia di bravura. Buona serata cara Raffa 🌹

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