Ernst Lubitsch è stato regista, attore, sceneggiatore e produttore. Di origine tedesca, naturalizzato statunitense nel 1936, nasce a Berlino il 28 gennaio 1892. Di modesta famiglia ebrea, emigrata a Berlino dalla Polonia, poco dopo il diploma cominciò a esibirsi, diciassettenne, in qualità di comico nei music hall berlinesi. Nel 1911 entrò nella compagnia teatrale di Max Reinhardt, il quale lo utilizzò per piccoli ruoli, ma gli insegnò l’arte della recitazione e della messa in scena.

Già due anni dopo, nel 1913, Lubitsch cominciò a fare del cinema come attore, in una serie di brevi comiche imperniate sulle buffe disavventure di un piccolo e avido commesso ebreo. In un secondo momento cominciò a dirigere personalmente i propri film, basandosi su sceneggiature scritte in collaborazione con altri. Cercò anche di proporsi al pubblico in vesti drammatiche, ma l’insuccesso ottenuto lo convinse a ritornare al comico con i lavori successivi, e a puntare su una serie di opere interpretate da una giovane attrice, Ossi Oswalda, che aveva rivelato insospettate doti di commediante.

Nacquero così, tra il 1917 e il 1920, una serie di deliziose commedie e altri film imperniati su questa ‘Mary Pickford tedesca’, come veniva a quei tempi definita. Dopo aver realizzato nel suo Paese vari film di successo, si trasferì definitivamente a Hollywood nel 1923, con un ricco contratto offertogli dalla vera Mary Pickford, con la quale peraltro non riuscì mai a trovare un vero accordo sul piano artistico; vi sarebbe rimasto fino alla morte, con occasionali viaggi negli anni ‘30 a Parigi, Roma e a Londra, nonché nella Russia di Stalin per prepararsi segretamente a Ninotchka, ma non nella sua Germania, alla quale non avrebbe mai perdonato il nazismo e le persecuzioni antisemite.

E a Hollywood, dopo un poco felice esordio con la Pickford attrice e produttrice in Rosita nel 1923, realizzò una serie di film eccellenti per la Warner Bros, dove la mancanza di sonoro non si avverte mai come un’assenza, grazie all’uso raffinato e allusivo del materiale scenico, al gioco fantasioso e malizioso della macchina da presa, e alla sapiente guida degli attori. Per molti anni incompreso o sottovalutato dalla critica ufficiale, Lubitsch occupa in realtà un posto di rilievo nella storia del cinema come autore di alcune fra le più divertenti commedie cinematografiche mai realizzate, basate su uno humour allusivo e un ritmo perfetto.

Celebre è divenuta l’espressione Lubitsch touch, a indicare uno stile unico e inimitabile, che si può definire soltanto attraverso l’insieme, e al tempo stesso, le singole tappe di una filmografia fra le più rigorose e coerenti della storia del cinema. Qualche contrasto con il produttore Irving G. Thalberg rese meno facile il primo incontro di Lubitsch con la Metro Goldwyn Mayer, lo studio dove alcuni anni dopo avrebbe realizzato capolavori come La vedova allegra (1934), Ninotchka e Scrivimi fermoposta (1940). Tre opere che rivelano ancora una volta suggestioni teatrali nelle ambientazioni, ma anche soluzioni di straordinaria ricchezza nel gioco, spesso esilarante, talvolta malinconico, fra detto e non detto, mostrato e non mostrato, nella consueta galleria di allusioni che ne fanno uno dei molti segni del ‘tocco alla Lubitsch’.

Probabilmente il periodo più felice del regista fu quello della sua stagione alla Paramount, dorata, anche se resa un po’ troppo impegnativa da notevoli responsabilità anche produttive. Alla Paramount Lubitsch entrò nel 1928 e l’avvento del sonoro gli permise di rivisitare ironicamente, e al tempo stesso con nostalgia, l’operetta viennese, in una serie di film generalmente interpretati dall’attrice-cantante Jeanette MacDonald, insieme, ma non sempre, a Maurice Chevalier, altro attore e chansonnier che Lubitsch seppe usare in modo magistrale.

Particolarmente significativi, tra i film che riproposero la coppia, Il principe consorte (1929), per il quale ottenne una nomination all’Oscar, e L’allegro tenente (1931), storia di un ufficiale viennese che ama una violinista ma sposa una principessa, vivace soprattutto nei numeri musicali. Ma i vertici della commedia, Lubitsch li raggiunge in film non musicali, ambientati in una Europa stilizzata e un po’ convenzionale. Basta pensare a Mancia competente(1932), commedia di seducenti ladri-gentiluomini ambientata tra Venezia e Parigi, preceduta da uno dei pochi film drammatici di Lubitsch, L’uomo che ho ucciso, dello stesso anno, ambientata nella Germania abbandonata.

A queste opere fece seguito uno dei vertici della filmografia di Lubitsch, quel Partita a quattro (1933) che, valendosi delle interpretazioni di Miriam Hopkins, Fredrich March e Gary Cooper, narra con una certa audacia e con un’organizzazione del racconto fra le più calibrate, un intrigante ménage à trois. Lubitsch si era assicurato la collaborazione in sede di sceneggiatura di uno scrittore e commediografo statunitense, Samson Raphaelson, autore fra l’altro del racconto originario da cui era stato tratto il primo film parlato della storia del cinema, Il cantante di jazz (1927). Insieme, regista e sceneggiatore, realizzarono nove film tra i più perfetti della storia del cinema.

Quindi, quasi al termine della loro collaborazione, due film-testamento, il già citato Scrivimi fermoposta (1940), affettuosa rievocazione del piccolo mondo della bottega paterna, e Il cielo può attendere (1943), suo primo film a colori, per il quale ottenne una nomination all’Oscar. È comunque sintomatico che in questi e in quasi tutti gli altri suoi film, partisse quasi sempre da una commedia di provenienza europea, e ne affidasse la sceneggiatura a un autore statunitense.

Era un regista che come pochi altri conosceva gli attori, e poteva indifferentemente rovesciare l’immagine corrente di una diva (come quando fece ridere la serissima Greta Garbo in Ninotchka) oppure con eguale abilità confermarne le caratteristiche e portarle a una sorta di sublimazione, come fece con Marlene Dietrich in Angelo (1937).

Al mondo polveroso del teatro dedicò Vogliamo vivere (1942). Un’opera strepitosa che al momento dell’uscita sembrò troppo frivola, inadeguata alla drammatica situazione vissuta in Europa a causa degli orrori del nazismo. E che oggi, invece, appare il solo vero film dedicato dal cinema statunitense alla minaccia hitleriana, insieme al chapliniano Il grande dittatore (1940).

Nel dopoguerra il cinema di Lubitsch, pur raggiungendo ancora momenti di grande intensità, poteva ormai sembrare legato al passato. Ma sarebbe stato il più grande dei suoi non pochi allievi, Billy Wilder, a dimostrare come si potesse ancora ‘fare del Lubitsch’ in un mondo che aveva conosciuto Auschwitz e Hiroshima.
Nonostante sia stato uno dei registi di punta di Hollywood, solo nel 1947 ricevette un Oscar alla carriera. Nel 1945 Lubitsch aveva subito un attacco di cuore durante le riprese di Scandalo a corte, attacco da cui non si riprese mai completamente. Morì a Los Angeles in seguito all’ennesimo infarto, il 30 novembre 1947, durante le riprese de La signora in ermellino, film terminato poi da Preminger. Aveva 55 anni.

«Un film è bello quando è misterioso, per questo un buon regista deve lasciare delle cose non dette. Ogni buon film è pieno di segreti»
FONTI: Enciclopedia del cinema, Treccani – IMDb
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uno tra i registi più grandi di tutti i tempi
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Buon giorno 1 Non sapevo chi fosse
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Non sarai di certo l’unico. Buongiorno.
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Un grande regista sì
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Non lo ricordo e non mi sembra di aver visto uno dei film che hai menzionato o forse ero troppo piccola, diciamo così per mascherare la mia ignoranza cinematografica 😉 Buona serata cara Raffa 🌹
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Buon proseguimento di serata anche a te, Giusy 🌷
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Grazie 😊
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Ninotchka e Il paradiso può attendere mi sono piaciuti molto.
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eh questo è ik classico artista di cui ho sentito parlare ma di cui non ho mai letto ‘na mazza
almeno si capisce da cosa è nato il film recensito della settimana 😀
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Bè anche perché ne avevo parlato con C’è post@ per te.
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sì anche^^
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