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Billy Wilder, il reporter che diventò regista

Samuel Wilder, soprannominato Billy all’americana, nasce a Sucha, nell’odierna Polonia, il 22 giugno 1906, da famiglia ebrea. Trasferitosi a Vienna nel 1914 con la famiglia, vi compì gli studi superiori e quando stava per iscriversi all’università per diventare avvocato, finì invece per assecondare la sua passione per la scrittura, iniziando a lavorare come reporter, attività che proseguì poi a Berlino, dal 1926. Fu qui che cominciò a scrivere sceneggiature, e scrisse ben undici film, ponendosi al servizio del cinema di intrattenimento.

Alcuni dei più celebri film diretti da Wilder

Nel 1933, in seguito all’avvento del nazismo, partì per Parigi, dove ebbe modo di esordire nella regia accanto all’ungherese Alexander Esway. Nella primavera del 1934 arriva a Hollywood, e viene ingaggiato come sceneggiatore dalla Paramount Pictures, che lo affianca a Charles Brackett. I due formarono una delle più fertili e fortunate coppie di sceneggiatori hollywoodiani dell’epoca classica: negli anni Trenta furono autori di alcune commedie dirette da Ernst Lubitsch, Howard Hawks e Mitchell Leisen, mentre nel decennio successivo firmarono i copioni dei primi film di Wilder regista.

Billy Wilder e Gloria Swanson dietro le quinte di Viale del tramonto (1950)

Questi, infatti, stanco delle modifiche apportate alle sue battute in fase di ripresa, a partire dal 1942 convinse i dirigenti della Paramount ad affidargli la regia dei film scritti insieme al partner. Il suo nuovo ruolo gli consentì di non dedicarsi esclusivamente alla commedia, ma di muoversi con disinvoltura nell’ambito di vari generi. Vero erede della lezione di Ernst Lubitsch, rispetto a quest’ultimo accentuò i toni dissacranti, tanto che la critica dell’epoca lo definì più volte cinico e forse non comprese mai a fondo le sue opere.

Wilder e Kim Novak durante la lavorazione di Baciami stupido (1964)

La sua formazione mitteleuropea gli permise infatti di considerare gli Stati Uniti, i loro valori e il loro sistema di vita, con un atteggiamento disincantato, che si traduceva in maliziosa ironia nelle commedie e in cupo realismo nei melodrammi. Wilder seppe infatti introdurre, in un cinema come quello hollywoodiano, fortemente ancorato all’uniformità psicologica dei personaggi, l’idea pirandelliana che le diverse personalità dell’individuo sono sempre e comunque mutevoli, simili ad abiti da indossare o togliere a seconda delle circostanze e delle opportunità.

Wilder scherza con Shirley Mac Laine durante le riprese di Irma la dolce (1963)

I suoi film appaiono infatti dominati dal tema della maschera, dell’apparenza ingannevole, ma quasi sempre la maschera finisce per aderire in maniera troppo perfetta al personaggio che ha deciso di indossarla, sino a trasformarsi in una condanna, come nel caso di Tyrone Power in Testimone d’accusa, che nello svelare la sua colpevolezza, ma soprattutto il tradimento verso la moglie che lo ha scagionato, troverà la morte. Oppure, al contrario, la persistenza nella finzione produce nel personaggio una metamorfosi, che lo porta a diventare ciò che all’inizio si sforzava di essere: per esempio in Sabrina, il milionario impersonato da Humphrey Bogart, si innamora davvero della ragazza che ha iniziato a corteggiare solo per tenerla lontana dal fratello.

Wilder con Audrey Hepburn sul set di Sabrina (1954)

Il fascino dei suoi personaggi spesso emerge proprio dal conflitto interiore legato alla necessità di scegliere tra opportunismo e dignità personale. L’attore che nei suoi film ha meglio espresso questo conflitto è senz’altro Jack Lemmon: basta pensare a film come L’appartamento o Non per soldi… ma per denaro, in cui riesce a impersonare alla perfezione la figura dell’uomo impacciato, incline a subire gli eventi e le personalità più forti della sua, ma capace infine di ribellarsi alle circostanze, in un rabbioso sussulto di dignità.

Wilder e Lemmon sul set de L’appartamento (1960)

Un repertorio tematico di questo tipo portò Wilder a tratteggiare una galleria di personaggi di forte complessità, in costante evoluzione, attraversando generi diversissimi. I suoi film, per lo più brillanti e maliziosi anche se non privi di risvolti amari e spesso drammatici, lo consacrarono maestro della commedia ma anche del racconto, capace di analizzare in profondità e criticare i costumi della società americana attraverso i vari generi cinematografici, dimostrandosi ironico e malizioso nelle commedie, realistico e dissacrante nei drammi.

Wilder, Marilyn e Curtis sul set di A qualcuno piace caldo (1959)

Fu capace di passare dal noir al melodramma, firmando sempre capolavori assoluti: da La fiamma del peccato, del 1944, a Giorni perduti, del 1945, da Viale del tramonto, del 1950, a L’asso nella manica, del 1951. Non fu da meno nella commedia brillante, con Sabrina, del 1954, e Quando la moglie è in vacanza, dell’anno dopo, folgorante riflessione sulle manie dell’americano medio. Dalla seconda metà degli anni ’50 anche le commedie cominciarono a incupirsi: ad esempio, alla base dell’esilarante A qualcuno piace caldo, del 1959, c’è addirittura il massacro di San Valentino, o nel caso de L’appartamento, al di là del lieto fine, c’è un amaro ritratto di solitudine.

Wilder con Marilyn Monroe sul set di Quando la moglie è in vacanza (1955)

Ciò non gli impedì di integrarsi alla perfezione nel sistema hollywoodiano, grazie al suo indubbio talento nel realizzare film coinvolgenti, anche se attraversati da personaggi e situazioni sgradevoli. Tuttavia rischiò talvolta l’impopolarità, soprattutto quando il suo desiderio di realismo oltrepassava di gran lunga le convenzioni accettate ad Hollywood. È il caso di Giorni perduti, in cui affronta senza filtri il tema dell’alcolismo, tanto che la Paramount non voleva nemmeno distribuirlo, ma anche de L’asso nella manica, violento atto d’accusa contro il mondo dell’informazione, giudicato allora eccessivo, e oggi invece considerato una pietra miliare sull’argomento.

Wilder e Kirk Douglas durante la lavorazione de L’asso nella manica (1951)

Il tema venne poi ripreso dal regista in chiave dissacrante in uno dei suoi ultimi film, Prima pagina, del 1974, ambientato nella Chicago del 1929 e interpretato da Jack Lemmon e Walter Matthau, coppia protagonista di altri suoi successi, nonché del suo ultimo film, il più stanco, Buddy Buddy, del 1981.

Wilder insieme a Matthau e Lemmon durante le riprese di Prima pagina (1974)

Nel 1988 l’Academy gli attribuisce il premio Thalberg alla carriera che va ad aggiungersi a un impressionante elenco di premi: Leone d’Oro alla carriera nel 1972, tre Golden Globe, tre Oscar per la sceneggiatura e due per la regia, oltre a dozzine di premi minori. Wilder, circondato dall’ammirazione dei cinefili di tutto il mondo, muore a Los Angeles il 27 marzo del 2002, all’età di 95 anni.
Le Monde, in Francia, pubblica il suo necrologio titolando: “Billy Wilder è morto: nessuno è perfetto”.

«Se hai intenzione di dire la verità alla gente, cerca di farlo in modo divertente, o ti uccideranno»

FONTI: Enciclopedia del cinema, Treccani – ecodelcinema

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Autore: Raffa

Appassionata di cinema e di tutte le cose belle della vita. Scrivo recensioni senza prendermi troppo sul serio, ma soprattutto cerco di trasmettere emozioni.

16 pensieri riguardo “Billy Wilder, il reporter che diventò regista”

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